SALVAGUARDIA DELLE COSTE. COMPETENZE E POTERI
di Edoardo Salzano
Intervento al convegno nazionale indetto da Italia Nostra - sezione di Savona, sul tema “Salvaguardia della fascia costiera”. Savona, 5 dicembre 2006
A leggere le cronache locali, a valutare le denunce degli ambientalisti, sembrerebbe proprio che la costa della Liguria stia conoscendo una nuova stagione, simile a quella che troviamo leggendo le pagine di Italo Calvino della fine degli anni Cinquanta (penso ovviamente a La speculazione edilizia).
Le forme sono certamente diverse, e anche i personaggi. Là dove una volta prevalevano rozzezza e incultura, approssimazione e meschinità, oggi non mancano raffinatezza di forme e di argomentazioni. Credo che valga la pena di domandarci che cosa è cambiato, da oggi ad allora: che cosa c’è di nuovo, e che cosa invece ci fa esclamare con apprensione – come nei titoli dei film sui mostri – “a volte ritornano”.
La devastazione del territorio non provocò danni solo in Liguria, ma quasi in ogni parte d’Italia. Erano gli anni dell’espansione e della crescita, i primi decenni del secondo dopoguerra. Espansione e crescita nelle quali le scelte di politica economica privilegiavano la crescita di alcuni settori al cui sviluppo venne sacrificata la pianificazione territoriale e urbanistica. Mi riferisco all’edilizia e alle attività immobiliari, e alla motorizzazione privata e alla conseguente realizzazione di strade sempre più numerose e più pesanti. Era facile prevedere che lo sviluppo incontrollato di quei settori avrebbe gravemente compromesso le condizioni delle città e del territorio: ciò che puntualmente avvenne.
Un ceto politico più avveduto di quello attuale, e qualche gruppo imprenditoriale meno miope e meno parassitario di quelli di oggi, compresero che bisognava modificare qualcosa: bisognava tornare alla pianificazione per ridare ordine al caos, e bisognava dare alla pianificazione contenuti nuovi.
Si rilanciò la pianificazione urbanistica, che divenne lo strumento primario del governo del territorio in gran parte d’Italia. Fu sostanzialmente in quegli anni che si posero le basi per il rafforzamento del primato della pianificazione generale (quella affidata ai comuni e agli altre istituzioni rappresentative dell’elettorato) sulle pianificazioni di settore, quale quella delle autorità portuali.
Si istituirono le Regioni, con poteri considerevoli nel campo dell’urbanistica e della programmazione economica. Si avviò faticosamente e contraddittoriamente una riforma del regime degli immobili, che peraltro non giunse a conclusione. E negli anni successivi, mentre per un verso iniziava lo smantellamento in chiave tatcheriana degli strumenti faticosamente conquistati, si arricchì la pianificazione di contenuti nuovi.
Fino ad allora, in Italia la pianificazione aveva riguardato soprattutto le città e la loro espansione, e l’assetto del territorio in quanto contenitore e supporto di strutture e infrastrutture necessarie alle crescenti attività dell’uomo: nei piani territoriali si dovevano decidere le localizzazioni delle aree e degli impianti necessari alla residenza e ai relativi servizi, alle attività produttive e a quelle commerciali, ai servizi di vario ordine e grado, alle connessioni tra di loro via terra e via acqua e alla loro alimentazione di energia, acqua, fluidi. La pianificazione, insomma, si occupava più delle trasformazioni e dell’artificio che della conservazione e della natura.
Negli anni 80 le cose cambiarono. Alle intuizioni e ai tentativi degli urbanisti (voglio ricordare Edoardo Detti, Giovanni Astengo, Luigi Piccinato), alle denunce e alle proposte di alcune benemerite associazioni (grandi furono i meriti di Italia Nostra), si aggiunse la spinta della nuova consapevolezza ambientalista e la constatazione dei gravissimi danni che il saccheggio delle risorse provocava ad alcune componenti fondamentali della ricchezza del paese: dalla sua stessa consistenza geofisicha, all’immenso patrimonio culturale in esso sedimentato. Tra i contenuti nuovi della pianificazione particolare evidenza venne data in quegli anni al paesaggio e all’ambiente.
Per il paesaggio si svilupparono antiche intuizioni (da quella lontana, 1922, del ministro dell’istruzione Benedetto Croce) e strumenti normativi egregi per l’epoca e il contesto politico nel quale erano stati formulati (le leggi di tutela del 1939), e si formularono regole nuove, del resto pretese dalla Costituzione e dalla sua solenne dichiarazione “la Repubblica tutela il paesaggio”. Mi riferisco in particolare alla cosiddetta Legge Galasso del 1985, che introdusse i cardini di una nuova disciplina del territorio.
Si stabilì che le coste e i monti, i corsi d’acqua e i ghiacciai, i boschi e le comunità agrarie costituivano i segni visibili dell’identità del Paese, e come tali andavano tutelati da tutti gli istituti che costituiscono la Repubblica: lo Stato, le regioni, le province, i comuni. Si dispose che la tutela avvenisse mediante la pianificazione del territorio, che poteva essere esercitata, per la responsabilità della regione, mediante piani paesaggistici oppure mediante piani territoriali che avessero tra i loro contenuti essenziali la tutela del paesaggio e dell’ambiente.
Tra le regioni che rispettarono la legge attuandola come sarebbe stato doveroso per tutte vi fu la Liguria. Fece un Piano paesistico egregio sotto il profilo scientifico, forse non abbastanza perentorio dal punto di vista dell’incidenza sulla pianificazione comunale.
Nello stesso periodo della legge per la tutela del paesaggio altre disposizioni disciplinarono, mediante diversi apporti al sistema della pianificazione, altri elementi dell’ambiente e del paesaggio.
La legge per le aree protette estese la portata dei parchi (che comunque rimangono alcune isole nell’insieme del territorio nazionale) e ne disciplinò pianificazione e gestione, con qualche pasticcio nel rapporto tra pianificazione dei parchi e pianificazione territoriale e urbanistica (il “piano del parco” sostituisce ogni altro piano, come se ad esso dovessero far capo anche le decisioni sull’organizzazione dei centri abitati in essi compresi).
La legge per la difesa del suolo stabilì che tutte le misure, i provvedimenti, gli interventi e i vincoli relativi alla protezione delle acque e dalle acque avvenisse previa formazione di piani di bacino, formati sotto la responsabilità di una autorità pubblica inter-istituzionale, e che essi, per quanto riguarda strettamente gli aspetti connessi alla difesa del suolo, prevalessero su qualunque altro piano.
Negli stessi anni si chiarì un altro aspetto importante della pianificazione nelle aree costiere: a livello nazionale e, dove le regioni furono attente, al livello delle legislazioni regionali. Mi riferisco ai rapporti tra pianificazione ordinaria (regionale, provinciale, comunale) e pianificazione dei porti.
Una legge nazionale stabilì che il piano regolatore portuale delimita e disegna “l'ambito e l'assetto complessivo del porto, ivi comprese le aree destinate alla produzione industriale, all'attività cantieristica e alle infrastrutture stradali e ferroviarie”, ma che “le previsioni del piano regolatore portuale non possono contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti”. Per di più, “il piano regolatore è adottato previa intesa con il comune o i comuni interessati” ed è approvato dalla Regione.(Legge 28.1.1984, n. 84, art.5).
La Regione Liguria, per conto suo, provvide ulteriormente a legiferare, stabilendo che il piano regolatore del porto è approvato non dalla Giunta, ma dal Consiglio regionale, il quale, addirittura, “apporta modifiche in relazione alle previsioni degli strumenti di pianificazione o di programmazione vigenti od adottati, nonché in relazione alle competenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente, con particolare riferimento alla sostenibilità e al bilancio ambientale delle relative scelte” (Legge Regione Liguria 12 marzo 2003, n. 9, art. 1).
Il carattere preminente della pianificazione urbanistica e territoriale, delle competenze del comune e della ragione, degli interessi della difesa del paesaggioo e dell’ambiente rispetto ai piani, alle competenze e agli interessi meramente economici e aziendali mi sembra perfettamente garantita.
Torniamo al paesaggio. Con la legge Legge Galasso, e con le successive edizioni del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, il ruolo del paesaggio e gli strumenti della sua tutela si affinarono, fino a giungere alle attuali disposizioni. La legislazione nazionale, e le diverse sentenze costituzionali che si sono occupate dell’argomento, hanno consentito di giungere a un approdo significativo di cui è utile ripercorrere i capisaldi, che sintetizzerò in sei punti:
1. la tutela del paesaggio è un prius rispetto alle trasformazioni del territorio; in tal senso, le disposizioni della pianificazione regionale concernenti la tutela del paesaggio sono vincolanti ope legis per la pianificazione successiva, sia di livello regionale che di livello provinciale e comunale;
2. la competenza nell’individuazione dei concreti beni da sottoporre a tutela, e in particolare dei “beni paesaggistici”, spetta alla Regione, nel rispetto delle categorie di beni individuate dalle leggi nazionali;
3. il paesaggio non è costituito unicamente dai “beni paesaggistici” appartenenti alle individuate categorie, ma è un connotato del territorio che ovunque va analizzato, valutato, protetto nelle sue qualità o ricostituito dove queste siano state dissolte;
4. la pianificazione territoriale delle province e quella urbanistica comunale, nel rispetto delle disposizioni della pianificazione paesaggistica, devono svilupparne le indicazioni approfondendo lo studio e la valutazione delle qualità del paesaggio e degli elementi di degrado in atto;
5. la responsabilità dell’azione di tutela è condivisa dall’insieme delle istituzioni che costituiscono la Repubblica, ma rimangono massimamente nell’ambito delle competenze dello Stato e delle regioni (con qualche pasticcio derivante dalle modifiche costituzionali introdotte nel 2001, che hanno artificiosamente separato la tutela della valorizzazione);
6. la formazione di piani paesaggistici regionali conformi alle prescrizioni del Codice e la conseguente redazione di piani urbanistici comunali a loro volta conformi ai piani paesaggistici può ridurre i poteri d’intervento ad hoc degli organi dello Stato per la tutela di beni minacciati di danno, e di conseguenza semplificare le procedure abilitative in tutte le vastissime aree vincolate ope legis.
Mi sembra che si possa dire che, sul terreno degli strumenti legislativi, le cose sono indubbiamente migliorate rispetto al passato. Non sono migliorate, e anzi a mio parere sono tornate al punto di partenza sotto altri profili. “A volte ritornano”.
Voglio soffermarmi molto brevemente su tre aspetti del peggioramento.
In primo luogo, credo che si debba parlare di una tendenza all’abdicazione dello Stato e delle Regioni nei confronti dei Comuni. Si è rotto nei comportamenti l’equilibrio tra le istituzioni previsto dalla Costituzione. L’errore grande è stato secondo me l’interpretazione estremistica che si è data al principio della sussidiarietà.
Nell’accezione della Comunità europea (dove l’espressione fu coniata ai tempi di Jacques Delors) il principio di sussidiarietà significa che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (la Regione nei confronti del Comune, o lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Nell’accezione italiana – fortemente condizionata dalle posizioni della Lega Nord di Bossi – sussidiarietà significa sostanzialmente “tutto il potere all’istanza più vicina al cittadino, a meno che proprio non sia insensato farlo”.
La formulazione legislativa, che costituisce il riferimento del nuovo testo costituzionale, si avvicina a questa interpretazione estremistica, ma non ci arriva (Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a). Ci arrivano però alcune interpretazioni e applicazioni autorevoli sul piano dei poteri reali, come quella prevalente nella Regione Toscana, dove si è arrivati ad affermare che tutti i livelli istituzionali sono da porsi sullo stesso piano, talché mai la Regione potrebbe impedire a un comune di fare, sul proprio territorio, “una schifezza”, sebbene questa “schifezza” insozzasse un bene di rilevanza regionale, o addirittura nazionale e universale.
Ora tutta la storia del nostro territorio nell’ultimo secolo dimostra che l’istanza più vicina al cittadino è anche quella più sensibile alle sollecitazioni per un uso immediato e privatistico del “bene comune” costituito dal territorio.
Nonostante le malefatte dello Stato e delle Regioni, è certo che i livelli sovraordinato del potere pubblico sono stati quelli meglio capaci di comprendere le ragioni e gli interessi della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. Gli unici, del resto, deputati dal nostro sistema legislativo a tutelare “anche gerarchicamente” (suggerisce la Corte costituzionale a proposito della pianificazione paesaggistica) il bene d’interesse nazionale costituito dal paesaggio.
Il secondo aspetto del peggioramento intercorso negli ultimi anni mi sembra sia costituito dall’accresciuto ruolo del settore immobiliare nell’economia e nella politica. E’ ormai consapevolezza comune che nel nostro paese le grandi aziende industriali hanno investito molto più nella rendita finanziaria e immobiliare, tra loro strettamente intrecciate, che sui terreni propri del capitalismo industriale: la ricerca, l’innovazione di processo e di prodotto, la concorrenza nella produzione di merci.
E registriamo tutti ogni giorno come le attività immobiliari e i loro promotori siano diventati, agli occhi di numerosi politici anche autorevoli, anche di sinistra, interlocutori privilegiati e operatori da difendere anche nel loro ruolo economico e sociale. Sembrano davvero lontani mille miglia gli anni in cui i dirigenti dei partiti di sinistra e gli esponenti del capitalismo avanzato potevano trovare un interesse comune nel combattere le posizioni di rendita – in particolare immobiliare – vedendole giustamente come un freno all’espansione dei profitti e dell’accumulazione da un lato, dei salari e del benessere delle famiglie dall’altro lato.
La cosa singolare, e che apre il cuore alla disperazione, è che la rinnovata fortuna delle forme più degradanti dell’attività economica, dei settori della produzione che l’economia classica ha considerato più intrisi di parassitismo, appaiono in auge proprio mentre nel mondo è aperta una riflessione generale sui limiti generali di un’economia basata sulla crescita indefinita della produzione di merci. Insomma, mentre stiamo ragionando con Jeremy Rifkin e con Serge Latouche, ci si vengono a riproporre come interlocutori privilegiati gli eredi dello speculatore de “Le mani sulla città”
Il terzo, e forse più grave aspetto del peggioramento, quello dal quale in definitiva anche gli altri derivano, è costituito a mio parere dalla crisi della politica. E’ una crisi grave, profonda, che ci coinvolge tutti, come cittadini e come persone. Ciascuno di noi può dire “ho una mia filosofia”, “ho una mia religione”; nessuno può dire altrettanto della dimensione politica. Se la politica non c’è, siamo tutti più poveri e più esposti, più infelici, meno padroni del nostro futuro.
Della crisi della politica ciò che più mi preoccupa è la sua attuale miopia. La politica non sembra più capace di indicare un progetto di società, un progetto di futuro: una prospettiva condivisa per il quale sacrificare qualcosa oggi e ciascuno, per avere qualcosa domani e tutti.
Gli orizzonti temporali richiesti dal territorio, dal paesaggio, dall’ambiente sono orizzonti lunghi; quelli sui quali si è appiattita la politica coincidono con il mandato elettorale. Tra gli uni e gli altri non c’è compatibilità.
Una volta un sindaco era orgoglioso se, nel corso del suo mandato, riusciva a concludere l’iter di un buon piano regolatore. Era capace di far comprendere ai cittadini (lui stesso, o i partiti politici cui si riferiva) che quel disegno della città futura era cosa buona, e sarebbe stato realizzata nei tempi anche lunghi necessari. E sapeva accompagnare questo progetto di futuro con atti amministrativi che andavano nella stessa direzione, che erano anticipazioni del progetto di città. Il progetto prevedeva ampi spazi per i bambini e i giovani, e mentre si discuteva il piano regolatore si apriva un asilo nido e si espropriava una villa.
Oggi, un buon sindaco è quello che, a metà del suo mandato, avvia la realizzazione di un grattacielo, magari più lungo di quello del suo vicino.
Difficile combattere il destino di “seconda rapallizzazione” che sembra abbattersi sulle nostre coste, in questa condizioni. Eppure, l’alternativa è possibile. Lo dimostra una terra non tanto lontana da qui, la Sardegna.
Ho avuto la fortuna di partecipare all’avventura iniziata, e finora condotta vittoriosamente, dalla Giunta guidata da Renato Soru. Ho potuto misurare l’entità del danno incombente, le decine di milioni di metri cubi di lottizzazioni turistiche approvate nei loro piani regolatori dai comuni della costa. Ho potuto ammirare la determinazione con la quale la Giunta ha provveduto ad attuare le leggi per la protezione del paesaggio analizzando il territorio, inventariandone e cartografandone le caratteristiche, catalogando le diverse tipologie di beni paesaggistici e individuando i riconoscibili ambiti di paesaggio. Ho potuto concorrere a definire criteri e regole per la tutela immediata e per la successiva ricognizione alla scala più minuta, per la definizione della azioni necessarie per sostenere e attuare le scelte della pianificazione.
Mi hanno soprattutto colpito il coraggio di andare controcorrente, con una determinazione straordinaria, in nome del futuro e dell’interesse collettivo. Mi ha colpito il rigore con il quale si è stati capaci di dare seguito concreto a motivazioni molto forti. E voglio ricordare le parole con le quali Soru investì del suo compito di consulenza il Comitato scientifico:
“Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale”.
La Sardegna indica una strada possibile. Ma la Sardegna da sola non ce la può fare a percorrerla tutta. Occorre che la possibilità di tutelare il paesaggio, offerta dalla legislazione vigente, sia colta in modo generalizzato, diventi pratica corrente in gran parte del nostro paese. Tenendo ovviamente conto delle diversità, ma assumendo dappertutto come dominanti gli interessi di tutti – ivi compresi i nostri posteri – rispetto a quelli di pochi, e non attribuendo al futuro un ruolo secondario rispetto al presente.
Che fare qui, a Savona, in Liguria?
Mi sembra che sul piano amministrativo si debbano adoperare fino in fondo gli strumenti disponibili, a partire dal Codice. Il piano paesaggistico del 1986 offre una buona base di partenza. Spero che il quadro conoscitivo allora costruito sia stato tenuto a giorno, che le fonti siano disponibili. Sono certo che non sarà difficile né lungo adeguare quel piano ai dettami del Codice del paesaggio, nella sua ultima versione del 2006.
Sono anche certo che i ministeri dei Beni e delle attività culturali e dell’Ambiente, della tutela del territorio e del mare vorranno concorrere a redigere un piano paesaggistico pienamente conforme alla lettera e allo spirito del Codice, così da avere anche gli effetti di alleggerire le procedure di ottenimento delle autorizzazioni.
Lavorare in questa direzione comporta indubbiamente che i due ministeri, che il Codice rende entrambi portatori degli interessi statali in materia di tutela del paesaggio, possano e sappiano attrezzarsi, ripristinando o costruendo ex novo strutture o task forces capaci di collaborare con sistematicità e competenza nel lavoro di pianificazione paesaggistica con le regioni: non solo qui in Liguria, ma anche in Toscana, in Friuli - Venezia Giulia e in tutte le altre regioni italiane che siano disposte ad attuare la legge.
Ma la strada da percorrere è questa. Altrimenti non si comprenderebbe perché, dall’antico Decreto Galasso del 1983 all’ultima versione del Codice del 2004 tante volontà e intelligenze di parlamentari, ministri e sottosegretari, funzionari dei beni culturali, amministratori regionali ed esperti di varie discipline abbiano lavorato, al fine di affinare le armi a disposizione della Pubblica amministrazione per tutelare con efficacia il lascito della natura e della storia costituito dai nostri paesaggi.
So bene che lavorare sul piano amministrativo, se è indispensabile e se costituisce probabilmente il primo passaggio necessario, non è sufficiente. Occorre che qualcosa si muova anche sul piano politico e culturale. Occorre soprattutto che la politica riprenda la capacità di guardare al futuro, e che la cultura l’aiuti in questa direzione. Molti esprimono questo desiderio, e tremano al pensiero che ciò possa non avvenire. Voglio riprendere le parole che ha scritto ieri su l’Unità il mio vecchio amico Diego Novelli, giornalista, parlamentare e sindaco di Torino in anni non meno difficili di questi. Scrive Novelli:
“Come sarebbe bello vedere i nostri ministri, i presidenti di regione, i sindaci delle grandi città accalorarsi per avere più strumenti per la difesa del suolo e per un programma serio per il recupero del grande patrimonio immobiliare fatiscente, abbandonato. Purtroppo non è così. Si continua a «mangiare», ogni giorno, fette di territorio soprattutto lungo le coste del Belpaese, ma anche nelle grandi città dove un certo tipo di processi di deindustrializzazione ha liberato milioni e milioni di metri quadrati di aree. Per le coste cito quella più vicina al mio Piemonte e che meglio conosco. Consiglio un viaggio da ponente a levante della Liguria, da Ventimiglia a La Spezia. Un vero saccheggio. La Regione, il mio amico e antico compagno Claudio Burlando (già ottimo sindaco di Genova) non vede, non sente, non parla. Così dicasi per le aree industriali dismesse. A Torino hanno realizzato la cosiddetta Spina3 (ex ferriere Fiat e altre fabbriche) che di fatto è un nuovo ghetto, di lusso, ma sempre ghetto. La densità consentita è da capogiro. È stata teorizzata e santificata la rendita sui suoli quale incentivo per gli investimenti e quindi per lo sviluppo tutto all'insegna della falsa modernità nuovo simbolo della cialtroneria politica, culturale e sociale”.
Di “falsa modernità” avete esempi e progetti autorevoli, in questo tratto di costa. Io spero che vedrete anche voi prevalere non una modernità basata sul saccheggio della ricchezza comune e sull’esibizione individualista di gesti in calcestruzzo e acciaio, ma una modernità che sappia conservare ciò che gli anni della devastazione ha lasciato intatto, recuperare ciò che è stato degradato, restituire l’antico valore d’uso (e non degradare in merce e trasformare in valore di scambio) ciò che di pregevole la collaborazione tra l’uomo e la natura ha saputo costruire.