SERGIO GIORDANELLI
Le querce sacre di Barbizon
Alliance Française
dal 14 aprile al 28 maggio 2010
"Shelley avanzò l'idea che i poeti di tutti i tempi contribuissero alla creazione di un unico Grande Poema che perennemente si viene facendo. Borges fa osservare che sono i poeti a creare i propri precursori. Se i poeti morti, come Eliot sosteneva, costituiscono il progresso di conoscenza specifico dei loro successori, tale conoscenza rappresenta comunque un prodotto dei successori, creato dai viventi per i bisogni dei viventi" (1). Trasposte nel campo della pittura, queste frasi di Harold Bloom danno conto delle ragioni per cui gli artisti si impegnano costantemente in un dialogo intenso, antagonistico o coalizzato che sia, con i loro predecessori.
Uno sguardo al Novecento - il secolo in cui ancora idealmente viviamo - ne fornisce ripetute conferme, dagli affondi picassiani su Manet e Velasquez al rapporto fra De Chirico e Böcklin, dal giottismo di Carrà al ribaltamento concettuale architettato da Giulio Paolini su un'immagine di Lorenzo Lotto, senza dimenticare lo sberleffo duchampiano alla Gioconda o la sua assimilazione allo star-system operata da Andy Warhol. Declinato in termini ludici od ironici, decostruttivi o di vero e proprio "ritorno all'ordine", questo articolato confronto - a lungo trascurato sul piano storico-critico - va emergendo a livello curatoriale, fornendo spunto ad una serie di manifestazioni espositive culminate nella grande rassegna parigina "Picasso et les maîtres".
A questa sensibilità si ricollega, non pretestuo-samente ma per autonoma intuizione (2) e, senza dubbio, per interiore necessità, il lavoro pittorico di Sergio Giordanelli, che - partito da un impianto figurativo ariosamente naturalistico, in seguito travalicato in una sorta di "naturalità astratta" - torna ora ad incontrare alcuni dei creatori della pittura moderna di paesaggio, inoltrandosi fra le sacre querce di Barbizon.
Mediata da una sequenza di incisioni d'epoca, questa sfida non esibisce intenti analitici né vuole attingere esiti di eccellenza mimetica. Da questi ultimi anzi dichiaratamente rifugge, scegliendo di muovere da particolari, talvolta addirittura secondari, dell'immagine di partenza. L'artista entra nel panorama tratteggiato da Corot non per trascriverlo in un nuovo linguaggio, non per rifugiarsi nella sua focale "risonanza" (nell'accezione di Stephen Greenblatt, l'attitu-dine ad evocare, al di là del dato formale, le energie e la temperie culturale da cui l'opera è scaturita), ma per raggiungere il nucleo di autenticità e bellezza, il delicatissimo punto di equilibrio "fra schermo interiore della coscienza e schermo esteriore della natura" (3) che gli ha conferito il "senso di unicità" (4) di cui è permeato.
Così dallo scorcio originale del maestro che, Baudelaire dixit, "non sbaglia mai nel comporre" (5), scompaiono l'edificio imponente che ne occupava il centro, gli scoscendimenti del terreno si attenuano in una quinta orizzontale ritmata dai verdi e dai bruni, chiusa lateralmente da due cortine di fronde che si fondono oblique nella limpidezza del cielo.
Una disposizione sintetica, questa, che, immersa in una luce mitigata, s'affaccia anche negli altri d'aprés: nel prato al centro della veduta da Desbrosses e nelle rocce al limitare della strada isolate dallo sfondo dell'acquaforte di Léon Le Goasbe de Bellée; nella ferme di Yon e nell'avvallamento del pascolo raffigurato da Adolfo Bignami come nella ripa fluviale di Rayper, spogliata d'ogni vegetazione.
Ma i caratteri di sintesi e di luminosa fisicità dei dipinti di Giordanelli non scaturiscono da un'armonia o - per far uso di una formula montaliana - da una "felicità raggiunta": stanno, piuttosto, "sul fil di lama" di una vibrazione che traspare ovunque nelle striature, nell'intrec-ciarsi e nel diramarsi, volta a volta, delle pennellate; nell'addensarsi e nello stemperarsi dei toni di colore. Ed è appunto questa vibrazione, questa energia latente ad innervare il ciclo di cui andiamo discorrendo, a schiudere - come si può osservare nitidamente nell'elabo-razione dal soggetto di Daubigny, costituito da un albero gigantesco, squassato dal vento - oltre la veduta, la sostanza della visione.
[Sandro Ricaldone, 13/2/2010]