VOLTI, FORME E CORPI DEI CANTIERI
Villa Bombrini
dal 7 al 21 maggio 2010
E' nel pieno dell'Ottocento che la fabbrica compie il suo debutto pittorico. E' un artista oggi poco noto e dall'impianto accuratamente documentario, Ignace François Bonhommé a ribaltare, dall'antichismo di David ad una modernità imperniata sulla produzione industriale, l'idea del "quadro di storia", dipingendo attorno al 1840 a Fourchanbault la "Veduta di una grande forgia all'inglese". Questa linea, concretamente sostenuta dal governo francese che commissionò all'autore una serie di dipinti murali per l'École des Mines, troverà un supporto in Champfleury, il teorico del Realismo, il quale, nel capitolo conclusivo de l'"Histoire de l'imagerie populaire", chiamava gli artisti a decorare "le mura vuote dei templi" industriali con scene tratte dal lavoro dell'uomo nelle miniere", indicazione che verrà poi seguita, su scala più contenuta, da Constantin Meunier.
Ancora, in Germania, negli anni '70 del diciannovesimo secolo, Paul Meyerheim, con "Storia di una locomotiva" (1873) ed il suo amico Adolph von Menzel nel grande quadro intitolato "Laminatoio" (1872-75), ora alla Nationalgalerie di Berlino, dove un gruppo di manovali si affatica attorno ad una colata di metallo incandescente, realizzano due fra le opere capostipite nella descrizione dell'epica e del patimento del lavoro operaio. Su questa linea verranno a collocarsi i lavori di altri artisti, fra cui spicca l'anarchico militante Maximilien Luce, autore de "La forge" (1899), che venne utilizzata a scopo propagandistico da una rivista socialista americana.
Frattanto la fabbrica fa la sua comparsa nel contesto di un paesaggio agreste che, attraversato dalle nuove vie ferrate, va rapidamente mutando. I contorni di una manifattura compaiono al centro di serie di dipinti realizzati nel 1873 da Camille Pissarro a Pontoise. Sono le sagome acuminate delle ciminiere e le scie di fumo che disperdono nell'aria a distinguere l'edificio da una delle placide fattorie di cui erano popolati i dipinti dell'École de Barbizon e le campagne per lo più ritratte dagli stessi Impressionisti suoi sodali, non alieni, peraltro, dal cimentarsi con i nuovi, arditi ponti in ferro e con le stazioni ferroviarie scurite dal fumo.
Lungo la prima metà del Novecento i temi della fabbrica e del lavoro ispireranno una corrente di creazione visiva che si diramerà in campi e su versanti diversi: nel cinema con l'incubo tecnologico tratteggiato da Fritz Lang in "Metropolis" (1927) e la satira chapliniana di "Tempi moderni" (1936); in fotografia con gli scatti obliqui di Alexander Rodchenko nella segheria di Vakhtan (1930) o con gli operai sospesi a cavi ed impalcature (1931) di Lewis Hine; e, ancor più ampiamente, in pittura.
In quest'ultimo campo, nel primo decennio del secolo scorso il contributo degli autori italiani risulta fondamentale: opere come "La giornata dell'operaio" (1904) di Giacomo Balla, "Il Cantiere" (1909) di Plinio Nomellini, conservato alla Galleria d'Arte Moderna di Nervi, e "La città che sale" (1910) di Umberto Boccioni, emblema dell'impeto futurista, toccano la misura del capolavoro. Ma nel panorama entrano molte altre ricerche di rilievo. Fra queste, gli altoforni ("Stabilimenti Klöckner, Haspe, notte", 1927) di Conrad Felixmuller, esponente della Nuova Oggettività tedesca, e le turbine ("Steam Turbine", 1939) di Charles Sheeler, "precisionista" americano, o le affusolate silhouettes delle "Operaie del tessile" (1927) di Aleksandr Dejneka, cantore delle conquiste sovietiche.
Nel secondo dopoguerra, chiusa la parentesi del Neorealismo, con l'affermarsi della pittura informale inizia in Occidente una fase di eclisse per i temi della fabbrica e del cantiere, preceduta dal grande esito dei "Costruttori" (1950) di Fernand Leger, dove le travature metalliche scandiscono la tela dando vita ad un reticolo geometrico entro cui le figure si dispongono alternando posture stabili ad ascese azzardate.
Nella fase matura dell'età industriale, in ambito internazionale, la forza attrattiva esercitata dall'immagine della fabbrica declina - laddove, almeno in Italia, la sua funzione sociale ed il suo ruolo nella mobilitazione sindacale e politica delle masse operaie rimangono centrali sino agli anni '80 - e solo di recente, con l'emergere della globalizzazione economica, sembra registrarsi una significativa ripresa d'interesse, segnalata dalle immagini fotografiche di Andreas Gursky, noto artista tedesco che "lavora sull'enciclopedia della vita" per estrarne "l'essenza della realtà" e, più ancora, del canadese Edward Burtynsky, che appunta invece la sua attenzione sul rapporto conflittuale fra natura e industria.
Si comprende allora come lo scandaglio, attraverso il filtro delle arti visive, del grande deposito di "contenuti storici, sociali e lavorativi" che si condensa in alcune aree della nostra città, proposto nella mostra "Volti, corpi e forme dei cantieri", non costituisca un'operazione innocua ma vada, come annotava Eugenio Battisti a proposito dell'archeologia industriale, a toccare "una civiltà che ancora vive, o almeno è calda sotto le sue ceneri, e così il territorio da essa creato" e a farsi, in qualche misura, carico del significato che "l'industria ebbe sulla cultura 'umanistica' mondiale".
Mentre si ricordano i significativi precedenti costituiti dai cicli pittorici di Cecilia Ravera Oneto a partire dai tardi anni Cinquanta e di Nino Bernocco nei primi anni Novanta, si rileva come gli artisti chiamati a partecipare abbiano affrontato il soggetto con modalità diramate, ricercando - anche attraverso la rielaborazione di modelli e di esperienze radicate - risposte autonome agli interrogativi posti dal reale.
In un primo gruppo di opere, fabbrica e cantiere vengono presi in esame come elemento del paesaggio, urbano in prevalenza, ma non solo. Vediamo infatti Mario Chianese restituirci con la sua "Demolizione della fornace - Libarna", attraverso una sapiente modulazione di tonalità brune, uno scenario segnato dai solchi delle ruspe che fa tutt'uno con la campagna circostante. Nel contesto della città, in uno scorcio costiero, Milly Coda ritrae in "Ruderi, paesaggio industriale", con sensibili graduazioni luministiche, il profilo - colto in lontananza - d'uno stabilimento, mentre la presenza, in primo piano, di un edificio diroccato conferisce all'immagine spessore simbolico. Anche Bruno Liberti colloca sullo sfondo i contorni sfumati d'una fabbrica in una veduta dall'alto ove i frutti appoggiati al davanzale suggeriscono l'ambito ligustico e una dimensione di quotidianità.
Nel suo "Da New York al Mediterraneo: cantieri" Maria Luisa Greco sovrappone tecniche e ambiti territoriali, ponendo la celebre foto di Charles Ebbett che raffigura un gruppo di operai intenti a far colazione su una trave del Rockfeller Center in costruzione a riscontro delle sagome di imbarcazioni in costruzione presso uno dei cantieri che abbondano sulle nostre coste.
Luciano Lovisolo tratteggia - in uno schizzo d'epoca, ad un tempo minuzioso e corsivo - il complesso siderurgico di Cornigliano ("Stabilimento Italsider-Oscar Sinigaglia di Genova Cornigliano", 1979-83), costruendone le forme con linee nitidamente stese a circoscrivere le rade, e terse, zone cromatiche, in un colpo d'occhio unitario, che viceversa Piero Terrone frammenta in un mosaico di visuali dove le "Immagini della fabbrica" sono accostate alla grigia monumentalità dei viadotti.
Luigi Maria Rigon costruisce l'icona d'un "Cantiere" mediante un assemblaggio post-futurista d'incastellature, di parti meccaniche, di veicoli, unificato dal colore metallico e dalla rude nettezza dei volumi; Raimondo Sirotti, al contrario, fa esplodere in fasci di luce centrifughi, fra terra e cielo, i "Bagliori sull'altoforno".
Ad una serrata dialettica fra il riverbero della luce e un repentino rabbuiarsi Luciano Caviglia affida il processo generativo del suo "L'ombra - il cantiere", saldamente articolato su proiezioni diagonali ascendenti, mentre Pier Canosa svolge, ad acquarello, in cadenza fiabesca l'evocazione di un cantiere del tempo che fu, sotto le arcigne mura cittadine al cui estremo si distingue, in lontananza, la balza della Lanterna.
Una misura metafisica risalta, infine, nel "Cantiere" dove Walter Di Giusto mostra, fra il convergere delle masse grige degli edifici, una barra bianca e rossa a mezz'aria, nell'atto di aprire o chiudere l'accesso al mare oltre cui s'intravede, in lontananza, il sito industriale.
Sulla figura umana s'impernia un secondo, più ristretto gruppo di lavori. Ne fa parte "Spillatori", di Sergio Giordanelli, un acrilico su carta dove è trasposta pittoricamente, in un'atmosfera affocata, un'immagine documentaria in cui ritrae due operai intenti a svuotare una colata, protetti da maschere simili a larghi becchi, che conferiscono loro sembianze di mostri da fantascienza. Analogamente, Marcello Mogni inquadra nel contesto di un'officina una forte individualità operaia, circoscritta da un'aura vibrante d'energia. L'opera di Luigi Grande fa invece riferimento ad un diverso motivo, quello del corteo, assai prossimo - peraltro - a quello più ricorrente del comizio, ricco di esempi illustri, da "L'oratore dello sciopero" (1891) di Emilio Longoni a Turcato: la sua "Coppia nel corteo" è sbozzata con tratti larghi e risoluti, volutamente noncuranti, che partecipano una vitale sensazione d'immediatezza espressiva.
La figura solitaria effigiata da Giovanni Job a braccia conserte, addossata ad un muro scabro al margine del quale s'intravede uno scarno lembo di mare, comunica un'impressione di sofferta solitudine, mentre volti femminili disposti in successione e sovrastati da un mare tempestoso, sembrano occupare i pensieri del personaggio che, ridotto ad un mero contorno, campeggia nella tela dedicata al "Mediterraneo" da Roberto Martone.
Aurelio Caminati immerge i propri personaggi in un'atmosfera onirica, se non propriamente visionaria; li sospinge a fluttuare, "Cercando la dignità", fra i sostegni d'una impalcatura, sotto un cielo intriso di bagliori e di fumi. Un analogo clima di vagheggiamento fantastico, declinato però secondo uno schema giocoso, circonda con il nerboruto marinaio tatuato, intento ad effettuare segnalazioni con bandierine microscopiche, di Gigi Degli Abbati.
Lo spunto marittimo è ripreso da Sergio Palladini nel "Rimorchiatore Carignano", dove l'intera scena è attraversata da una peculiare emanazione luminosa, che immette l'opera in una dimensione sospesa e come extratemporale, e - ancora - nel dipinto di Giovanni Trielli, dove all'imbarcazione delineata, in una trama di adddensamenti e rarefazioni cromatiche, a far da sfondo ad una fantasmatica figura femminile, è attribuito il compito di richiamare visivamente la metafora enunciata nel titolo: "Naufraghi della memoria".
Un'accentuata complessità di concezioni e materiali caratterizza anche il gruppo delle sculture. Al suo interno ci imbattiamo infatti in uno dei "Guerrieri" in ceramica di Adriano Leverone, imponente stele che, dissimulando sotto parvenze astratte l'origine antropomorfa, accenna al coraggio ed alla forza del lavoratore, così come Sartor, nel legno che rappresenta due braccia espressivamente attorte ("Mani e dignità") sottolinea la dimensione etica del "saper fare".
Piergiorgio Colombara, in "Curna", una scultura in rame e vetro del 2008, trae dai riflessi dei materiali sottili risonanze che svelano un'intima, e insieme vertiginosa, poesia del formare.
L'impianto ludico della "Ciminiera ecologica" di Ilario Cuoghi, un cono d'acciaio sormontato, anziché da scie di fumo, da un'ammiccante nube dorata, traduce con leggerezza l'aspirazione utopica alla liberazione dall'inquinamento. Parimenti aerea e felice è la trama curvilinea dell'"Elica improbabile" foggiata da Paolo Chimeri, in procinto di sollevarsi in volo senza l'ausilio di un apparato motore, in virtù della sua intrinseca spigliatezza.
La forza austera del metallo - che Natale De Luca, nel dipinto "Rottami fusi", presenta nel suo stato magmatico, nella vampa d'un rosso incandescente e Roberta Ferrarese propone invece, con "Residui d'officina", in una sorta di rugginoso sfaldamento - viene impaginata con simmetrico rigore da Franco Repetto in un assemblaggio di frammenti recuperati che fanno di una "Realtà occultata (una) realtà rivelata".
A chiudere idealmente il percorso della rassegna è Giulio Belluti, autore di una tela intitolata "Il cantiere dell'arte", dove sollecitando attraverso un'ingegnosa molteplicità di citazioni la materia del fantastico, ribadisce come l'arte sia essa stessa una fabbrica : di forme, d'immagini, di idee.
[Sandro Ricaldone, 16/4/2010]