ANNA RAMENGHI
Stanze di Eros
Palazzo San Giorgio
dal 26 maggio al 30 giugno 2011
Si legge nel manoscritto del Trattato d'amore di Guittone d'Arezzo, conservato a Madrid nella Biblioteca del Escorial, "Quy de'essere la figura de l'amore pincta sì ch'el sia garçone nudo, ciecho, cum due ale su le spale e cum un turbaschio a la centura, entrambi di color di porpora, cum un archo en man, ch'el abia ferio d'una sayta un çovene enamorao" (1).
Ma l'immagine di Eros, saettante alla cieca il dardo d'amore, non compare sulla pagina, quasi a sottolineare l'inafferrabilità del dio cui la stessa mitologia antica attribuisce personificazioni diverse e contraddittorie.
Identificandolo dapprima come la potenza primigenia che muove Gea, la Terra, emersa dal Caos a unirsi ad Urano, il Cielo, ed a Ponto, il Mare, per generare gli dei; poi legandolo ad Afrodite di cui lo si ritiene, alternativamente, il padre o - nella versione più nota - il figlio.
A concepire l'impresa di rappresentarne pittoricamente le storie, suddivise in quattro "stanze", qui riunite per la prima volta in un allestimento che ricorda le gallerie fittamente ornate dei palazzi secenteschi, è stata, nell'ultimo scorcio del '900, un'autrice appartata e ardimentosa: Anna Ramenghi, che a questo ciclo, ospitato nei suoi diversi momenti da Rosa Leonardi nelle sale di cui disponeva al primo piano nobile del Palazzo Imperiale di Campetto (dove, per singolare coincidenza, si trova un affresco attribuito a Luca Cambiaso sul tema delle Nozze di Psiche) e attivamente seguito sul piano critico da Giorgio Di Genova, ha dedicato oltre un decennio di lavoro assiduo e appassionato. A dar avvio alla sequenza, nel 1993, l'incontro con la Venere allo specchio di Velázquez di cui realizza, nel primo episodio, non una copia ma una splendida asseverazione giustapposta ad un dipinto (Eros a ...) dal quale, in compiuta antitesi, Venere - e con lei Eros - scompare, abbandonando sul letto i suoi emblemi: lo specchio ed il velo.
È dunque sotto il segno dell'assenza (della perdita) che si scioglie il primo atto della vicenda, mentre nel successivo protagonista è l'imprudente trasgressione, da parte di Psiche, del divieto di ravvisare le sembianze di Eros, che le è compagno nell'oscurità della notte.
Se l'involarsi di Eros non precluderà a Psiche (Anima, in greco), a conclusione di una serie di prove imposte da una gelosa Afrodite, il ricongiungimento con l'amato e l'acquisto dell'immortalità, ben diversa è la sorte di Orfeo e Euridice, che il medesimo, umano impulso a contemplare il volto dell'essere amato, dopo la prova estrema della discesa nel regno dei morti, condanna ad una nuova crudele separazione.
In ultimo è Pandora, fatale dono di Zeus agli uomini, ad occupare la scena con l'incantesimo della sua bellezza che fa schermo alla vecchiaia, alla malattia ed alla morte.
Privazione, prova, pericolo si accompagnano dunque all'estasi d'amore, che pure si realizza a dispetto di ogni azzardo e di ogni incrinatura, come la "rete gettata sull'eternità" cui accenna Zygmunt Bauman, e però non si dà in una dimensione inalterabile, ma, proprio a motivo delle negatività da cui non può trovar riparo, si rispecchia (o addirittura si converte) nella sofferenza.
Questa matura consapevolezza della natura insieme divina e umana (troppo umana) dell'eros, che ci fa comprendere come agli artisti sia dato condensare nelle immagini depositi di pensiero e di passione, si riflette negli esiti pittorici che l'autrice modula su sfondi costruiti nell'alternarsi di oscuramenti e trasparenze, in andamenti nebulosi e vorticanti. Il colore, steso con le mani, vi si raccoglie come in tessere incurvate, oblunghe, dai toni viola e rosso cupi, simili ai petali delle rose che formano il tema prediletto dei quadri più recenti di Anna Ramenghi. Questo aspetto assume particolare evidenza in opere quali Piume e petali e Ultima fioritura, entrambe realizzate nel 1993 e destinate ad affiancare la tela ov'è ritratta Psiche che regge nel buio una lanterna sul volto ancora indistinto di Eros.
Ma l'aspetto cruciale, quello dove meglio si coglie la simbiosi fra il senso del mito e la sua emotiva rappresentazione pittorica, risiede nella raffigurazione dei corpi, volutamente acefali per essere insieme effigie dell'uno e dei molti, avvolti in una luce sgranata e vibrante, che li rende (in Come Venere o nel Sonno di Eros, del 2000) emblemi assoluti della fisicità nel momento stesso in cui li trasfigura in una dimensione che si può ben dire metafisica, facendone così immagini dell'anima incarnata.
Così l'appuntarsi dell'attenzione dell'autrice sulle tracce di Eros (desiderio), di Psiche (anima) e Venere (sensualità), diviene altra cosa dalla semplice rilettura del mito greco o del calco erudito della grande pittura rinascimentale e secentesca, che pure - ma attraverso la seduzione della pittura - ha fornito il pretesto iniziale della ricerca. Non solo per il distacco formale da subito instaurato rispetto a questi modelli (una qualche consonanza su questo piano dovremo semmai cercarla nell'opera dei grandi visionari francesi del secondo Ottocento, Gustave Moreau e Odilon Redon) ma per "l'affettività profonda e smisurata" che vi lega il soggetto desiderante all'oggetto d'amore, in una volontà di comunione che trascende le singole individualità.
Così nella nudità non astratta ma casta dei corpi si realizza, secondo l'opinione di Lévinas, "una significativa irradiazione etica all'interno dell'erotismo e della libido" (2), di cui la "tenerezza com-mossa" che Anna Ramenghi dispiega nelle sue tele costituisce la forma visibile.
[Sandro Ricaldone, 18/4/2011]
(1) Qui deve essere la figura d'Amore dipinto come un giovane nudo, cieco, con due ali sulle spalle ed un turcasso alla cintura, ambedue di color por-pora, con un arco in mano con il quale trafigga d'una freccia un giovane innamorato
(2) Emmanuel Lévinas, citato da Marco Vozza ne Le Maschere di Eros, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pag. 76.