FLUXUS IN ITALIA
Per quanto paradossale possa sembrare, nell’arte del Novecento i movimenti più longevi sono quelli che ci aspetteremmo di veder divampare e spegnersi in un arco di tempo ristretto: le avanguardie, la cui stagione ancor oggi non è del tutto esaurita. Se infatti l’esperienza di Dada si è estinta nell’arco di un quinquennio (1917-1920), Futurismo e Surrealismo hanno oltrepassato rispettivamente i trenta e quarant’anni di vita, superati di gran lunga dal Lettrismo, fondato nel 1946 e tuttora esistente. Ora al traguardo dei cinquant’anni approda anche Fluxus, forse il più singolare fra i gruppi che hanno animato la scena artistica contemporanea, il cui esordio avviene in Germania nel settembre 1962, con il Fluxus Festspiele Neuester Musik, un festival di musica “novissima”, organizzato a Wiesbaden da George Maciunas.
Questi, lituano emigrato negli U.S.A. nel secondo dopoguerra, sarà sino alla scomparsa, avvenuta nel ’78, il “presidente” (o, secondo altra versione, l’“impresario”) di un’accolta eterogenea di artisti, compositori, poeti e performers provenienti dai quattro angoli del globo: dagli Stati Uniti, da vari paesi europei (Germania, Francia, Danimarca in particolare, oltre all’Italia), da Giappone e Corea, fra i quali si annoverano autori che hanno acquisito in seguito grande notorietà anche individualmente: basti pensare a personaggi come Joseph Beuys, Nam June Paik e Yoko Ono.
Fluxus, termine latino che allude ad uno stato di continuo cambiamento, nelle intenzioni di Maciunas doveva operare per “bandire l’estenuazione intellettuale borghese, la cultura professionale e commercializzata, l’arte morta, l’imitazione, l’arte artificiale, astratta”, a favore di un’“anti-arte, un’arte vivente, che possa essere compresa da tutti e non solo da critici, dilettanti e professionisti”.
Così effettivamente è stato: sotto l’egida di un nume tutelare come John Cage, gli “eventi” Fluxus incentrati su una dinamica volutamente elementare (accendere e spegnere una lampadina, tagliare una cravatta, uscire da una stanza), su una musicalità anomala (il suono di un violino che viene spezzato; il rumore dell’acqua che gocciola in un catino) e su una recitazione straniata (la lettura delle somme di una calcolatrice, nel celebre evento di Maciunas “In memoriam to Adriano Olivetti”) hanno effettivamente ricondotto artisti e pubblico a dialogare con la quotidianità, a riscoprire “l’importanza della non importanza”.
E’ nello spirito di Fluxus che Dick Higgins, teorizza, l’“intermedialità”, scambio e contaminazione fra le diverse discipline espressive; che George Brecht scandaglia il ruolo della casualità nella creazione artistica; che Ben Vautier invoca il cambiamento dell’arte attraverso la distruzione dell’ego. C’è in Fluxus un aspetto meditativo, vicino allo zen, cui Nam June Paik aderisce quando toglie lo schermo ad un televisore per accendervi una candela; c’è un lato giocoso che Takako Saito interpreta allestendo una scacchiera sulla cupola di una bombetta; c’è un versante di contestazione politica al quale Maciunas dà voce trascrivendo nelle bande rosse della bandiera a stelle e strisce le sanguinose statistiche delle stragi perpetrate in Vietnam.
Gradualmente la strategia di Fluxus acquisisce una componente sociale: Maciunas si impegna nella realizzazione di alcune Fluxhouses, case-studio per artisti ricavate da fabbriche in disuso, dando avvio al recupero del quartiere newyorkese di SoHo; vengono inscenati matrimoni e divorzi Fluxus, Olimpiadi Fluxus e, alla morte di Maciunas, il suo “Fluxus Funeral”.
Dopo la scomparsa di questi, che per i puristi come Jon Hendricks segna la fine di Fluxus come movimento, molti fra i partecipanti alla sua fase storica (fra cui Philip Corner, Geoff Hendricks, Alison Knowles, Ben Patterson ed altri già nominati) hanno continuato ad operare, sino ad oggi, secondo l’attitudine originaria.
Nel corso degli anni la marea Fluxus ha dapprima lambito e successivamente, a partire dagli anni ’70, investito con forza anche l’Italia. A darne contezza, attraverso un’estesa cronologia ed una corposa raccolta d’immagini fotografiche, è un volume curato da Caterina Gualco per l’editrice genovese Il Canneto. Introdotto da un “portolano di viaggio” della curatrice e da un sintetico inquadramento storico di Antonio D’Avossa, il libro offre una sequenza di brevi contributi di alcuni protagonisti della migrazione Fluxus nel nostro paese: Rosanna Chiessi, Gino Di Maggio, Giuseppe Morra e memorie dedicate ad altri, già da qualche tempo scomparsi, come Francesco Conz ed Emily Harvey. E dà voce agli artisti attraverso testi e citazioni da cui emerge la singolare vitalità di un movimento che a Genova ha trovato un habitat particolarmente favorevole, sia a livello critico, con gli studi di Carlo Romano e di Enrico Pedrini, sia in ambito espositivo, a partire dalle prime performances organizzate da Gianni-Emilio Simonetti con la Bertesca di Francesco Masnata, passando per le mostre di Ben Vautier e Vostell da Rinaldo Rotta per giungere alle presenze di Giuseppe Chiari e Takako Saito nella galleria di Rosa Leonardi ed alla monumentale teoria di rassegne, reiterate anche nella stagione in corso, ospitate appunto da Caterina Gualco all’Unimedia. Senza dimenticare la più importante retrospettiva italiana degli ultimi anni: “The Fluxus Constellation”, andata in scena al Museo di Villa Croce, per le cure di Sandra Solimano, nel 2002.
Sandro Ricaldone