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30 aprile - 30 giugno 2012



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CHRISTIAN LEBRAT: L'IMMAGINE RITMO



Ci si sforza di rendere essenziale il fortuito.
Paul Klee

“Il teatro sta al cinema come la candela alla lampadina elettrica, l’asino all’automobile, il cervo volante all’aeroplano”, sosteneva Francis Picabia. E in che rapporto sta con il cinema la fotografia? Senza dubbio il legame fra le due arti è assai più stretto (un film rimane pur sempre un insieme di fotografie proiettate in sequenza ad una velocità idonea a creare l’illusione del movimento) ma rimane ugualmente problematico. Una difficoltà di relazione che Christian Lebrat, cineasta sperimentale, alla metà degli anni ’70 avvertiva con intensità. “All’epoca ero profondamente coinvolto con il cinema e nient’affatto interessato alla fotografia statica. Per molti anni ho persino rifiutato di scattare foto statiche, foto ricordo. Pensavo che la fotografia fosse troppo aneddotica. La fotografia era per me un frammento di tempo morto e non mi sentivo attratto dal tempo morto in quel periodo”. A dispetto di questa posizione, non troppo discosta dalla polemica indirizzata da Anton Giulio Bragaglia contro “la pedestre riproduzione fotografica del vero immobile o fermato in atteggiamento d’istantanea”, la fascinazione sopravviene rapida, per via dell’inatteso convergere d’una circostanza di fatto e della predisposizione mentale dell’autore, in quello che si può considerare un caso esemplare, se non di hasard objectif, di serendipity. “Un giorno ho trovato una vecchia macchina fotografica pieghevole che i miei genitori avevano comprato senza mai usarla. Era una macchina fotografica senza alcun automatismo. Dovevi fare tutto a mano, spostare la pellicola ruotando un comando, fermandoti quando compariva il numero 1, 2, 3 e così via. L'ho presa in un giorno festivo e mia moglie l’ha utilizzata per scattare delle foto senza fare attenzione ai numeri, così che, quando abbiamo sviluppato la pellicola, le istantanee sono risultate sovrapposte. Ho visto i risultati e mi sono sentito subito invogliato”.
Inizia così per Lebrat l’avventura dei rubans photographiques (nastri fotografici) che dal 1978 lo ha accompagnato sino ad oggi, accanto al cinema sperimentale e ad altri cicli di lavoro (gli autoritratti dei Torses e delle Poses noires, realizzati a partire dal 1986; i Rideaux, seguiti nel 1988) sempre al confine tra fotografia e cinema.
Le immagini create con questo procedimento pongono dinanzi agli occhi dello spettatore scene che oscillano tra il falso evento e il falso panorama. Nel nastro inaugurale (Piazza De Ferrari, 1978) la ripetizione e la parziale sovrapposizione delle inquadrature istituiscono uno spazio moltiplicato, con profondità differenti, nel quale momenti successivi sono resi compresenti in una sorta di simultaneità che – sebbene priva delle implicazioni teoriche delle avanguardie protonovecentesche, futuriste e orfiste – sembra rappresentare con originalità quel “flusso di sensazioni … immerse nello spazio e nella durata”, in cui secondo Soffici doveva riflettersi e concentrarsi plasticamente “una larga zona di vita commossa”. In Arcades (1981), le prospettive attraversate dalla luce dei portici di Via Po a Torino si intersecano, generando la visione di un luogo labirintico, ma già in Villa Bombrini (1984) la composizione si fa più articolata: l’immagine viene costruita non più semplicemente tramite la successione irregolare degli scatti e la variazione della distanza di ripresa, bensì attraverso il movimento della fotocamera che arriva a capovolgere il soggetto per riportarsi in ultimo nella posizione di partenza.
Questa elaborazione (come, e forse più, quella di altre prove non in mostra, Le Couple - Jardin de l’Observatoire e Le Palais Royal, entrambe del 1985) svela una propensione per l’ordinamento palindromo del “nastro”, prossima in certo modo alla concezione dei “ritmi non retrogradabili” di Messiaen, costruiti simmetricamente su andamenti inversi, ma con un’irregolarità di fondo, legata alla persistenza dell’elemento casuale, che la tutela dalla prevedibilità.
Il limite dell’astrazione viene toccato nella scia di spuma che forma il soggetto di Le Départ du Bateau Blanc dans le Port de Gênes (1985), dove, mediante lo scorrimento della pellicola ottenuto grazie ad una manovella applicata all’apparecchio fotografico, la frammentazione dell’immagine – che in qualche modo poteva ricordare le prove sperimentali di Marey e Muybridge - viene superata in un continuum visivo che dilata la frazione temporale della ripresa in uno spazio d’inusitata ampiezza.
L’irruzione del colore, già presente nel Départ, ma ancora sommesso, manifesta in Place de la République (1985) il suo risvolto più pregnante, realizzato con l’applicazione manuale di filtri sull’obiettivo, sino a sommergere, nell’accensione delle tonalità viola, degli azzurri e degli arancioni, gli elementi identificativi del luogo.
Absorption II - Parc de La Villette (1993), nel suo svolgimento a fisarmonica, gioca con l’irradiazione della luce attraverso una finestra, modulandola, attraverso l’alternanza di tagli frontali e obliqui, secondo un montaggio eseguito direttamente sul rullino fotografico, mentre in Fontaine Tinguely-Niki de St-Phalle, dello stesso anno, è lo specchio d’acqua a porre in risalto il movimento luminoso.
Nel Pont de Cornigliano (1995) si profila una scansione ritmica, imperniata sull’avvicendarsi, ai margini superiore ed inferiore del nastro delle curvature azzurre incastonate nella scura arcata del ponte ferroviario; scansione che vediamo accentuarsi nell’orditura de La Grande Roue (1997), esaltata dalla frequenza iterativa che introduce l’immagine notturna della ruota panoramica - icona di quel simultaneismo circolare coltivato, a suo tempo, da Robert Delaunay - in un moto concitato, a spirale.
Volume (1997), come Guggenheim – Frank Lloyd Wright (2000) si propone come esercizio di decostruzione di un monumento architettonico, trasposto in un susseguirsi di forme rese fluttuanti dal variare dei punti di vista, mentre Chicago Blue, anch’esso del 2000, vira in un azzurro cupo il panorama della città americana, fornendone un’interpretazione melanconica, come il titolo stesso suggerisce.
Una diversa atmosfera si dà nel trittico TTTRRRR…, dedicato al cinema di Hitchcock (più precisamente a North by Northwest, Intrigo internazionale nell’edizione italiana). Qui Lebrat rivolge direttamente lo sguardo al cinema: “installato nel buio della sala, di fronte allo schermo, ho catturato in una sequenza d’istantanee e nel tempo reale della proiezione la penultima scena del film, quella che si svolge nella casa di Vandamm, dove si svela la macchinazione. Si trattava di dare un certo spessore all’immagine, condensando in ogni istantanea un quarto di secondo di proiezione, vale a dire all’incirca sei immagini. L’intreccio delle vedute, realizzato per accavallamento, senza rispettare lo spazio che normalmente le divide, compone, nel suo insieme, il “nastro”, che - giocando sulle figure, le ripetizioni, gli sfasamenti e i sottotitoli – acquisisce autonomia e racconta in qualche modo la sua storia”.
Gli ultimi lavori tornano ad incentrarsi sui panorami: il trittico Haut Fourneau (2009) riprende, a futura memoria, lo scenario dell’ultimo altoforno dell’Ilva di Cornigliano, prima dell’abbattimento, “una bestia gigantesca – annota ancora Lebrat – ma ferita, agonizzante. In un ultimo addio ho cercato di trasfigurare il mostro in forme leggere, aeree, attraenti. È stato il mio modo di rendere omaggio agli uomini che hanno costruito queste acciaierie; che le hanno subite lasciandovi il loro sudore e le loro speranze”.
D’ambiente agreste, invece, Klee/Barulé, realizzato la scorsa estate nell’omonima proprietà sulle colline della Valle Stura. Nell’innesto fra gli spioventi del tetto, colti da angolazioni diverse, fra i riquadri delle finestre, variamente orientati, le sezioni di cielo ed i cespugli costellati di fiori gialli, si compone una contemporaneità pluridimensionale che rimanda alla lezione del maestro svizzero, alla sua peculiare “prospettiva di un io vagante”, capace di ampliare e moltiplicare il significato delle cose, e perciò di rivelarci “ben più numerose verità”.

Sandro Ricaldone