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novembre 2012 - novembre 2013



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GRUPPO 63: TESSERE PER UN MOSAICO


I LIBRI DEL GRUPPO 63
(Palazzo Ducale, Spazio 42R - ottobre/novembre 2013)



“Forse perché non sono un artista, mi importa scarsamente che emerga subito, visibile come la cometa di Bethlem, un grande poeta, dalla voce di tuono, dai capelli al vento. A costui, se apparirà definitivo, porteremo panieri colmi di frutti, diffidandone se li accetterà. Per ora mi riesce di riconoscermi solo in un gruppo di persone sedute intorno a un tavolo. Si mostrano l’un l’altro le tessere di un mosaico. I contorni, naturalmente, non combaciano ancora”.
Così nel 1964 Umberto Eco commentava l’esperienza del Gruppo 63 che si era riunito per la prima volta nell’ottobre dell’anno prima a Palermo.
Ma a dispetto dell’understatement del futuro autore del “Nome della rosa” il convegno aveva avuto un effetto deflagrante sulla cultura italiane, ben superiore alle aspettative.
Intorno a quel tavolo c’erano alcuni autori che si sarebbero rivelati fra i maggiori del Secondo Novecento italiano, oltre allo stesso Eco, Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli. Edoardo Sanguineti. Insieme a loro, tutti trentenni, intellettuali delle precedenti generazioni come Luciano Anceschi, fondatore della rivista “Il Verri” e Gillo Dorfles e una quarantina di altri coetanei: Furio Colombo, Corrado Costa, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Giancarlo Marmori, Elio Pagliarani, Adriano Spatola.
L’obiettivo dei convegni – al primo ne seguirono altri 4: Reggio Emilia (1964), Palermo (1965), La Spezia (1966), Fano (1967) – era semplice e apparentemente innocuo: letture pubbliche dei testi e discussione.
Ma il solo fatto che si parlasse di Gruppo ebbe destabilizzò l’establishment letterario. Il lavoro collettivo ricordava troppo le intemperanze delle avanguardie storiche, futurismo. dadaismo, surrealismo, che molti si auguravano morte e sepolte.
Ad arroventare il clima contribuirono anche celebri battute polemiche, amplificate dai giornali, come quella di Sanguineti che paragonò Bassani a Liala. In realtà la nuova avanguardia si differenziava dalla vecchia per un elemento fondamentale: non produsse mai un manifesto, una linea condivisa, evitando, di conseguenza, anche i rischi di una ortodossia.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, quando quelle polemiche (forse) appartengono alla storia si può dire, come minimo, che il Gruppo 63 contribuì in modo decisivo ad un “aggiornamento” della cultura italiana, collegandola alle grandi correnti del pensiero europeo contemporaneo: strutturalismo, fenomenologia, psicoanalisi, nuovo marxismo, da cui era rimasta ai margini.
«Il furore dialettico, la profondità delle categorie interpretative, la spietatezza dell’analisi reciproca, l’attitudine alla sperimentazione» spiega Andrea Cortellessa, uno dei più attenti studiosi della neoavanguardia «hanno rappresentato uno schiaffo quanto mai salutare, alle consuetudini beneducate e sonnacchiose del pubblico letterario borghese. Si è rimproverato al Gruppo 63 di aver dato della “Liala»” a uno scrittore autentico quale Giorgio Bassani, che era però anche un dirigente editoriale assai ostile al nuovo, ma in effetti quello che era insopportabile allora era l’attitudine del pubblico più passivo a consumare come Liala anche uno scrittore di quella problematicità. Se oggi siamo in grado di leggere davvero Bassani lo dobbiamo, in fondo, anche alle contumelie di Sanguineti».
Ma per Cortellessa la lezione del Gruppo resta ancora, in qualche modo, ancora attuale. «La scorsa primavera a Rieti è andato in scena, per iniziativa del gruppo romano ESCargot», prosegue «un convegno che ha riunito una ventina di alcuni dei migliori poeti delle ultime generazioni, sottoponendone i testi a un parterre critico di tutto rispetto. E la formula, con qualche ulteriore correttivo, è sempre quella “spietata” dei convegni del ’63 e dintorni». È l’attitudine ”morale»” che ancora oggi è possibile ereditare dal Gruppo, preziosa dal punto di vista degli autori soprattutto da quello dei lettori. «La neoavanguardia ha provato a creare un pubblico critico: persone che magari non facevano i letterati di professione, o aspiranti tali, come invece sono oggi quasi tutti coloro che si interessano alle sorti del libro e della letteratura, ma esigenti e culturalmente aggiornati. Persone che leggevano un libro con la stessa attenzione con cui andavano a una mostra, o assistevano a uno spettacolo teatrale, o ascoltavano un concerto di musica contemporanea. Oggi l’industria culturale ha allargato a dismisura questo pubblico, sì; ma a prezzo di diluirne enormemente appunto l’attenzione, frastornandola con un’immensa quantità di fuffa mid-cult».
«Francamente però», conclude Cortellessa «mi pare difficile che una proposta esteticamente avvertita come fu quella della neoavanguardia anni Sessanta possa oggi trovare l’ascolto, e dunque ambire all’egemonia culturale, come in quel tempo».

Giuliano Galletta