GIAN LUPO OSTI
(1920-2012)
Acciaio e peonie. Altiforni e giardini. Due ambiti senza dubbio fra loro distanti, se non antitetici, quelli in cui Gian Lupo Osti, in tempi diversi, ha esercitato la sua attività. Vissuti però con la stessa tensione per la ricerca, per la riuscita di un progetto, per la condivisione di obiettivi e sapere. “Vi sono – scriveva nella postfazione a “L’avventura di un giardiniere” di Sir Peter Smithers, da lui stesso tradotto in omaggio al suo mentore nel mondo delle peonie – vari modi di avvicinarsi ad una più profonda conoscenza della vita”. Se le piante e il giardinaggio si sono rivelate “una delle strade più piacevoli a questo fine” (sebbene, come sosteneva Hermann Hesse, avere un bel giardino sia difficile quanto governare un regno), la gestione di grandi imprese, con l’annesso carico di responsabilità, di traguardi raggiunti e mancati, di speranze e delusioni, è stata certamente una palestra assai più ardua e complessa benché egualmente appassionata.
E’ nel decennio trascorso a Genova fra il 1955 ed il 1965, come segretario generale della Cornigliano e, successivamente, come direttore generale dell’Italsider, la società che accorpava l’intero settore siderurgico italiano di mano pubblica, che – nel corso della sua carriera manageriale - il dinamismo e la propensione innovatrice di Osti hanno avuto modo di dispiegarsi appieno. Negli anni trascorsi negli Stati Uniti (dove aveva rappresentato gli interessi della Finsider di Oscar Sinigaglia, svolgendo un ruolo importante nella negoziazione dei prestiti che permisero la ripresa postbellica del comparto), aveva assorbito la lezione di Schumpeter, il teorico dello sviluppo economico attraverso l’innovazione, ed era venuto a contatto con le prassi più aggiornate in tema di formazione e di organizzazione del lavoro. Approdato alla Cornigliano, Osti riunì attorno a sé un gruppo di giovani collaboratori con l’obiettivo di costruire l’immagine dell’azienda attraverso modalità comunicative al passo con i tempi e di stabilire una relazione attiva con la città, esperienza poi estesa su scala nazionale a seguito della fusione con l’Ilva che portò alla nascita dell’Italsider.
Eugenio Carmi, artista e grafico, che aveva al suo attivo un’esperienza di collaborazione con la Esso Italiana - la cui direzione era allora a Genova - divenne l’art director dell’azienda, sovrintendendone a tutto campo la comunicazione visiva (dall’impostazione delle pubblicazioni alla cartellonistica antinfortuni); mentre l’ufficio stampa sotto la guida di Carlo Fedeli si trasformava in un efficiente organo di relazioni pubbliche; Claudio Bertieri, critico teatrale e cinematografico, prestò la propria consulenza nel portare il teatro all’interno della fabbrica (in cui si impegnò, fra gli altri, Vittorio Gassmann con gli spettacoli proposti sotto il titolo “cinque modi di fare teatro”) e contribuì ad avviare una nuova stagione del film industriale in Italia, mentre Gian Paolo Gandolfo organizzava le attività culturali e sociali dei circoli Italsider, diffondendo il sapere contemporaneo attraverso apposite collane divulgative e tirature di opere di artisti già celebri, acquistabili ratealmente dai dipendenti. La progettazione di una nuova sede del gruppo fu commissionata all’inizio degli anni ’60 all’architetto tedesco - emigrato negli Stati Uniti in conseguenza delle persecuzioni razziali - Konrad Wachsmann, collaboratore di Gropius e pioniere delle costruzioni modulari prefabbricate, che si spinse ad elaborare un vasto piano urbanistico, rimasto irrealizzato, nel quale venivano ridisegnate la viabilità e il waterfront genovesi, ipotizzando fra l’altro la costruzione di un tunnel sotto lo scalo marittimo, idea ripresa, di nuovo senza successo, in anni recenti.
Il progetto culturale di più ampia portata promosso dall’Italsider sotto la direzione di Osti fu la grande mostra Sculture nella città, allestita nel 1962 a Spoleto da Giovanni Carandente, che il critico britannico David Sylvester non esitò a definire sul Times un sensazionale e nuovo esperimento che rendeva giustizia all’arte del XX secolo. In questa occasione numerosi artisti di fama internazionale furono invitati a realizzare le loro opere nei diversi stabilimenti della società, con il supporto dei tecnici e degli operai. A Cornigliano lavorarono Lynn Chadwick, Eugenio Carmi e Nino Franchina (che già nel 1959 vi aveva realizzato Commessa 60124, una scultura di 15 metri per la Fiera di Genova, donata alla città ma rimossa dopo aspre polemiche); Beverly Pepper operò a Piombino; Ettore Colla a Bagnoli. Pietro Consagra realizzò il suo Colloquio col vento nello stabilimento di Savona, dove le maestranze tradussero in scala monumentale il bozzetto del Teodelapio inviato da Alexander Calder, che rappresentava, in forme stilizzate e in posa equestre, il duca longobardo signore di Spoleto nel VII secolo. E fu in una antica ferriera di Voltri, ormai abbandonata, che David Smith creò in un mese, assemblando con febbrile passione rottami e vecchi attrezzi, uno dei capolavori della scultura novecentesca: la sequenza di ventisei sculture che dalla località del ponente genovese ha preso il nome.
Ma il periodo di tumultuosa ascesa della siderurgia di stato volgeva al termine: alla metà degli anni ’60 iniziava a palesarsi la frattura all’interno del gruppo dirigente della Finsider tra chi “dopo aver promosso con successo l’esperienza di Cornigliano, mirava ad estenderne i risultati … intraprendendo una importante opera di concentrazione e di riorganizzazione aziendale” - come annota Ruggero Ranieri nel saggio “La grande siderurgia in Italia. Dalla scommessa sul mercato all’industria dei partiti” - e chi invece si muoveva in una prospettiva più strettamente legata a specifici interessi politici, che portò al sovradimensionamento dello stabilimento di Taranto (di cui oggi si scontano le drammatiche conseguenze), alla penalizzazione di Piombino e al disegno, abortito, di costruire una nuova acciaieria nella piana di Gioia Tauro.
Osti lasciò l’Italsider e Genova nel 1965 per divenire amministratore delegato delle Acciaierie di Terni, il cui rilancio fu pregiudicato sin dal primo momento dalla sottrazione da parte di Finsider dei fondi compensativi per la nazionalizzazione del suo comparto di produzione elettrica. Anche nel decennio ternano non mancarono iniziative di rilievo, come la promozione del nuovo quartiere di case per i dipendenti (il villaggio “Matteotti”), la cui progettazione, affidata a Giancarlo De Carlo, fu uno dei primi esempi di coinvolgimento dell’utenza nella fase preparatoria o il finanziamento della collana L’Umbria, Manuali del territorio diretta dallo storico dell’arte Bruno Toscano, definiti da Vittorio Emiliani “veri e propri censimenti dei beni culturali delle valli e delle città ternane”.
Lasciata la Terni nel 1975 per l’acuirsi dei contrasti con il vertice I.R.I. si apre per Gian Lupo una fase nuova. “Sono andato in pensione abbastanza presto, a cinquantacinque anni” – raccontava in occasione della visita alla Luccica, sul lago di Bolsena, durante la visita degli Amici, nell’ottobre 2008 – “e così ho avuto tempo per coltivare la mia passione per la botanica”. Non si è trattato, però, soltanto di coltivare quietamente un giardino, ma di affrontare spedizioni avventurose nei paesi del Mediterraneo, dalle Baleari all’Anatolia, e in Cina, alla ricerca dell’habitat naturale delle peonie, “così esigenti nel scegliere le loro residenze”, di cui è divenuto uno dei massimi esperti.
Esplorazioni che si riversavano alla Luccica, non solo con la distesa di peonie, degli ibridi spontanei messi a dimora nei terrazzamenti sotto la casa in pietra rivestita di rose banksie e levigate, ma nel bosco attiguo, con gli esemplari di cui illustrava con orgoglio le provenienze: abeti greci (abies cephalonica), betulle dei Pirenei, il pino di Corsica, la grande quercia dorata (quercus robur Concordia) scoperta in Germania … In quello spazio di ricerca e di memoria Osti è poi venuto maturando le riflessioni proposte nel suo ultimo libro, Invecchiare in giardino (De senectute in horto), dove confrontandosi con il grande libro della natura, nel quale, secondo Galileo, che amava citare, è “riassunto tutto quel che è stato scritto in manuali e libri di filosofia e di scienza”, ha sparso i semi di un’intelligenza non convenzionale, capace di proiettare l’aurea misura degli antichi sulle contraddizioni della vita contemporanea; una saggezza di cui nella chiusa addita l’emblema nella ginestra cantata da Leopardi, la pianta umile e resistente “che si adatta al mutarsi della realtà, della vita che non interrompe mai il suo corso e sopravvive anche al fuoco e alle distruzioni di un vulcano”.
Sandro Ricaldone