PIERO SIMONDO
I MONOTIPI (1954-1958)
(Palazzo Ducale, Spazio 42R - dicembre 2013)
Fra gli artisti che nel settembre 1955 diedero vita, ad Alba, al Laboratorio sperimentale del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, Simondo è colui che ha impersonato i due aspetti più estremi, in apparenza inconciliabili: l’applicazione di un metodo di ricerca di serrato rigore e la maggiore apertura all’indeterminazione.
Al di là del comune richiamo al modello diffuso nella ricerca scientifica (Gallizio e Simondo avevano alle spalle studi di chimica, Jorn aveva una conoscenza approfondita delle teorie fisiche elaborate dal conterraneo Niels Bohr), la concezione del laboratorio si articola diversamente nei tre protagonisti. Jorn lo concepisce come una sorta di community of inquiry, in un senso molto simile all’ideale proposto da Peirce per la crescita della conoscenza. Gallizio ne fa il luogo deputato di un’alchimia estrosa, dove vagliare le più azzardate combinazioni di materiali e di forme. Simondo, invece, ne elabora una versione d’impianto metodologico, che propone di agire attraverso ipotesi di lavoro intenzionalmente formulate, secondo un processo in cui, come scrive in Eristica (1956), “la struttura finita può essere lo strumento di controllo di una prossima operazione – il tessuto complesso assunto come elementare di una nuova opera”.
In virtù della vena antispecialistica sottesa a questo procedimento, il laboratorio immaginato da Simondo non doveva essere, banalmente, una microaccademia dove acquisire la padronanza di tecniche magari inconsuete per produrre un’arte purchessia, bensì uno spazio nel quale fondare una prassi differente, capace di investigare la materia e di elaborare criteri volti a dar vita ad immagini impreviste.
Coerentemente con un simile assunto, il suo operare si è orientato, sin dall’avvio, su modalità che includessero nell’esito pittorico un tratto d’indeterminazione. Analogamente a quanto accadrà negli anni ’70 con le “ipopitture” e nel decennio successivo con i “nitroraschiati”, i monotipi realizzati a partire dal 1954 mirano insieme ad una spersonalizzazione del gesto, introducendo il diaframma della matrice (la lastra di vetro su cui sono stesi i colori), e ad affrancare, almeno in parte, tramite la specularità e le imperfezioni dell’impronta, l’immagine dall’aspettativa dell’autore e dal peso della tradizione (anche di una tradizione, per così dire, d’avanguardia). Si tratta di un sovvertimento allora appena avvertibile ma per certi aspetti non meno radicale del détournement di elementi estetici prefabbricati teorizzato da Debord, dato che al suo estremo contempla il deperimento del ruolo dell’artista e l’autoproduzione dell’immagine visiva.
Se quest’approdo viene sancito con evidenza in talune fra le opere più recenti di Simondo, per i lavori degli anni ’50 è lecito invece parlare di una dinamica sotterranea, che si accompagna alla propensione, non comune per l’epoca nel nostro paese, verso un primitivismo in bilico tra memoria figurale e astrazione espressionista. Sui fogli raccolti in questa mostra si stagliano profili di personaggi che appaiono come incisi su fondi solcati da tracce gestuali o maculati da colori sovrapposti; segni ancestrali, simili a graffiti rupestri, impronte rilevate in negativo, campiture dilavate che sembrano evadere dai confini del supporto.
La riproposta, a distanza di più di cinquant’anni, del momento inaugurale del lavoro di Simondo sembra perciò inverare con singolare autenticità l’affermazione di Heidegger secondo cui “Il dipinto dura alla sua maniera. Ma l’immagine giunge sempre improvvisa nel suo apparire, non è nient’altro che l’improvviso di questo apparire”.
Sandro Ricaldone