AGENORE FABBRI
DISEGNI 1940-1970
(Balestrini Centro Cultura Arte Contemporanea, Albissola Marina - luglio/settembre 2014)
Benché segnato, nel suo momento iniziale, dai rivolgimenti portati dalle avanguardie, con l’introduzione di tecniche potenzialmente concorrenti (quali ad esempio il collage e il fotomontaggio) è assodato che il Novecento, nel suo complesso, abbia riservato al disegno un ruolo, se non un destino, tutt’altro che secondario. La versatilità di questo “componimento di linee ed ombre”, “dimostrazione apparente di quelle cose che prima l’uomo coll’animo si aveva concepite e con l’idea immaginate”, come lo definiva Filippo Baldinucci nel suo “Vocabolario toscano dell’arte del disegno”, stampato nel 1681, gli ha infatti consentito di affiancare le oscillazioni della pittura, anche nella seconda metà del secolo, tra le riprese dei realismi e le esperienze informali, tra le cadenze citazioniste e postmoderne. Ma non meno significativo si è rivelato l’uso che del disegno hanno fatto scultori come Melotti, Fazzini o Mastroianni, per limitarci all’ambito italiano e prendere ad esempio artisti attivi su direttrici fra loro assai diverse. Fra gli autori di spessore internazionale che nella scultura hanno trovato il mezzo espressivo più consono, Agenore Fabbri è forse quello che al disegno ha riservato la più estesa funzione di palestra sperimentale, di esplorazione di registri dissimili, in genere consoni ma talora divergenti nei tempi o nei modi dall’alveo più noto della sua ricerca. Ne rendono testimonianza i numerosi fogli raccolti da Franco Balestrini nel corso della sua costante frequentazione dell’artista e del suo lavoro, che - riprendendo il titolo del prezioso volume degli scritti dedicati a Montale da Gianfranco Contini - sarebbe probabilmente più appropriato definire “una lunga fedeltà”.
I primi schizzi, eseguiti nel periodo più tragico del secondo conflitto mondiale, documentano la gestazione di quel trapasso dal sobrio classicismo degli anni ’30 alla concitazione espressiva del dopoguerra che Volker Feierabend, nel saggio introduttivo al catalogo ragionato della scultura di Fabbri, fissa al 1945, caratterizzandolo come “un totale cambio di paradigma nei suoi soggetti preferiti e allo stesso tempo (…) una radicale revisione del suo stile e del suo linguaggio”. Nella sequenza di figure femminili (s.t. 1944, p. 9) si coglie infatti un nuovo dinamismo e un tratto che dall’andamento lineare sfocia nella macchia, come ancor più nitidamente si riscontra nella figura femminile seduta di poco posteriore (s.t. 1945, p.11), mentre nei volti dei personaggi abbozzati nello stesso anno, riprodotti nella pagina seguente, è palese un’accentuata deformazione delle fisionomie. Una dimensione autenticamente drammatica viene evocata negli impiccati di Jugoslavia (1945, p. 13), memoria del periodo colà trascorso durante l’occupazione italiana, e ancor più nel disegno senza titolo che rappresenta una versione elaborata del Mostro della guerra (1945, p. 14, ripresa anche nella china del 1959 a p. 33), minacciosa figura dal volto somigliante ad un ingranaggio divoratore, irta di aculei, da cui l’autore trarrà spunto nel 1967 per una serie di sculture esposte l’anno successivo a Milano, presso la Galleria Arte Borgogna. Una analoga temperie inquietante si evidenzia nell’immagine dell’Animale (p. 19), una china acquarellata dove campeggia un essere a metà tra l’insetto e la belva, che protende le mascelle acuminate sino al margine del foglio. In stretto rapporto con le coeve terrecotte policrome del 1948 del medesimo soggetto sono i profili dei Gatti (p. 18), animali dalla natura ambigua, domestici ma – come osserva Norbert Nobis – di ascendenza rapace, sbozzati con un segno marcato che li fissa in volumi di una severa ieraticità.
Nello stesso arco di tempo, tra il 1946 ed il 1949, tuttavia Fabbri dischiude una linea di ricerca radicalmente alternativa, con una serie di fogli astratti, di cui peraltro i titoli evocano talvolta una remota germinazione da modelli figurativi. Ne scaturiscono motivi che per un verso riecheggiano problematiche spaziali o addirittura spazialiste ante litteram - e in proposito sovviene lo storico legame con Lucio Fontana, instaurato negli anni ’30 - o paiono rapportarsi, su altro versante, a calligrafie orientali (p. 15) per evolvere poi verso schemi curvilinei, analoghi in certa misura agli esiti di astrazione organica presenti, per azzardare un nome, in Hans Arp (pp. 16-17), ripresi nel 1952 nel fregio in ceramica policroma della facciata dell’Hotel Principe di Finale Ligure.
A partire dal 1950, Fabbri si cimenta con l’illustrazione di testi sacri e profani. Sintomaticamente il primo oggetto della sua attenzione è l’Apocalisse di Giovanni trattata in una serie di tavole (pp. 21-23) dove, su inediti sfondi cromaticamente accesi, le figure vengono definite mediante contorni ispessiti del tutto simili a quelli che compaiono nel grande pannello della Favola di Orfeo, esposto nel ’51 alla IX Triennale di Milano. Un segno più tagliente e sfondi più vibratili prendono campo negli episodi tratti dal Boccaccio (1959, pp. 34-35), mentre in un’altra sequenza destinata ad un libro per ragazzi (anni ’50, p. 37) l’impronta del carboncino erige con vigore l’intelaiatura di sembianze animalesche inclinate a sovrastare minuscole silhouettes infantili.
Alla metà del decennio appartiene la piccola crocifissione (uno dei temi che l’autore dichiara essergli più congeniali) dedicata alla moglie Caterina (1955, p. 24), graffito con tratti che si smarriscono nell’impercettibilità, quasi un presagio della formella (Gesù crocifisso tra i due ladroni, 1960) della Via Crucis realizzata per la cappella dell’INAIL a Firenze, andata purtroppo dispersa.
Un interludio felice è rappresentato dai fogli nei quali si condensa la memoria del Viaggio in Cina (1958, pp.25-29), dove accanto ad insetti dalle ali vivacemente colorate compaiono rami fioriti alternati a personaggi che paiono derivati dall’alfabeto ideogrammatico di quella civiltà.
Un nuovo scarto verso l’astrazione si verifica l’anno seguente, con pagine attraversate da tracce che si irradiano in fasci di colore scanditi da pause calibrate per articolarsi poi in schemi attorti in una sorta d’incipiente dinamismo che prelude, sotto più d’un aspetto, alla mobilità liquida della fase successiva che si avvia nel 1960, in parallelo con la svolta, in scultura, verso l’espressività informale che dai Personaggi lunari – che giustamente Feierabend pone in rapporto con il Manifesto dell’arte interplanetaria stilato l’anno precedente da Baj e da altri aderenti al Movimento Arte Nucleare - s’indirizza verso gli esiti delle Lacerazioni. Muovendo dall’approccio sperimentato in queste sue prove maggiori, contraddistinte dai solchi slabbrati aperti nella materia bronzea e dalla marchiatura rossocupa degli squarci che l’attraversano, l’artista approfondisce anche nell’ambito grafico-pittorico questa nuova opzione muovendo in un orizzonte in cui la macchia viene a sovrapporsi ad uno sfondo atmosferico, unendo componenti gestuali e casuali in un impianto che non smarrisce tuttavia un’apprezzabile saldezza strutturale (p. 38).
L’artista non abbandona però i temi e le forme già frequentati, come si evince dai fogli elaborati in quello stesso periodo (p. 40) dove ancora una volta campeggia l’emblema divorante del Mostro della guerra. Nonostante l’apertura verso soluzioni non palesemente figurative rimane – come notava Franco Russoli in uno scritto del 1954 – “sempre evidente e fondamentale nella sua opera questo intimo rapporto con la realtà fisica e spirituale che ha dato spunto alla sua creazione plastica: questa struttura ‘umanistica’”. Così l’adesione alla drammaticità della condizione umana non tarda a riaffiorare in termini espliciti anche nei disegni; nell’uomo diviso (1970, p. 42) che prelude al Monumento alla pace di Quarrata (1987) dove però la figura si protende integra, lasciando alle spalle il blocco di marmo spezzato smembrato in verticale da una scia color sangue come nella scena di lapidazione (p. 43) nella quale alle dita che già stringono le pietre da scagliare si contrappone una mano levata ad arrestare lo scempio, emblema della ribellione alla violenza, di una speranza di cui Fabbri coglie l’incancellabile presenza pur nell’incombere della distruzione.
Sandro Ricaldone