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LUCIANO LASCHI


ANTOLOGICA 2006-2014
(Palazzo Oddo, Albenga - maggio 2014)



Nei cinquant’anni e più del suo percorso, Luciano Laschi ha unito ad un obiettivo costante un’intensa carica evolutiva, perseguendo la ricerca di un’espressività in cui giungessero a fondersi una personalissima vena introspettiva e la percezione acuta della contemporaneità attraverso fasi diversamente caratterizzate.
Ad un esordio legato ad una figurazione traguardata in una dimensione esistenziale, ma già contraddistinta da una profonda sensibilità pittorica, di cui è esempio significativo il “Ritratto in verde” del 1966 dove la figura dell’adolescente in primo piano è attraversata, analogamente allo sfondo, da tessere di colore accostate in una trama incorporea, fa seguito - nel decennio successivo – una più concentrata attenzione agli aspetti plastici delle composizione, articolata (come in “Soliloquio” del 1979) in una struttura di matrice geometrica che conferisce al personaggio, effigiato in posa di abbandono meditativo, un tratto di peculiare compattezza.
Torna in evidenza, nei paesaggi di inizio anni ’80, la sensibilità cromatica delle primissime prove che, innervata da una più corposa presenza materica, attinge (come si osserva in “Notturno”, 1982) una marcata temperie fantastica, nel proiettarsi dei profili degli edifici, maculati di toni bruni e rossastri, in ascesa verso il fondale violaceo del cielo.
Di qui muove una sequenza in cui predominano l’ispessimento della stesura pittorica e gli inserti polimaterici toccando l’estremo di un’astrazione compiuta, in cui l’adesione al dato di natura, peraltro chiaramente enunciato nei titoli (“Falena”; “Finestra sul mare”, 1985 o – più tardi – “Sahara”, 1993), oltrepassa il limite della riconoscibilità.
Negli anni, le tele dell’artista si popolano di quelle che Germano Beringheli ha definito “ambiguità fantasmatiche”, volti e maschere tenuemente sfiorate dalla luce per volgersi poi a scorci di un cromatismo marcato, rivelatore – come ha osservato Dino Formaggio – dello stretto legame dell’autore con l’ambiente ligustico.
È attorno al 2004 che Laschi elabora un nuovo procedimento che gli consente, applicando sulla tavola brani fotografici ricavati da giornali e riviste velati parzialmente dal successivo intervento pittorico, di introdurre nel suo lavoro un confronto fra reale e immaginario, nel quale le istanze espressive primarie veicolate dall’irruenza del colore si misurano con una quotidianità designata dall’accumulo di corpi, di pagine, di manufatti meccanici.
Sono questi ultimi a prendere il sopravvento nelle opere più recenti, che alla dimensione pittorica sembrano associare una cadenza diaristica, volta a scandagliare – fra attualità e memoria - la problematica del tempo. Problematica che nel Novecento ha occupato a lungo i filosofi, da Bergson ad Heidegger, così come i fisici, da Einstein in avanti, e sulla quale l’arte non ha cessato di riflettere, sia facendo della durata (istantanea o prolungata) una componente dell’opera, sia ritraendone, in declinazioni differenti, i segni rappresentativi.
Così, mentre in antico il tempo veniva personificato in un vecchio dalla barba lunga, vestito con una toga, con in mano una falce e una clessidra, strumento che ritroviamo medio tempore in Albrecht Dürer, incombente sulla figura alata della Melencolia, nell’ultimo secolo è l’orologio ad “incarnarne”, secondo l’espressione di Norbert Elias, l’emblema. Effigiato talora in termini enigmatici (con De Chirico che dipinge nel 1911 “L’enigma dell’ora”), o reso duttile dall’esperienza onirica (con gli orologi molli de “La persistenza della memoria” di Salvador Dalì, 1931); destituito ironicamente dalla funzione ordinaria da Alighiero Boetti, autore di una serie di “orologi annuali”, od esorcizzato attraverso l’accumulo di migliaia di citazioni cinematografiche in una sorta di videocollage monumentale che arriva a coprire esattamente l’arco di una giornata (come ha fatto Christian Marclay in “The Clock”, 2010).
Luciano Laschi ha, dal canto proprio, inscritto nei lavori più recenti l’orologio (peraltro sempre diverso per forma e collocazione) in veste di onnipresente marchio dell’epoca, di appiglio indispensabile per fissare, nel fluire degli eventi e delle immagini che li rispecchiano, un fotogramma colto nella sequenza infinita dei possibili.
Ne emerge una visione ad un tempo analitica e sintetica: analitica nella scomposizione e nella discontinuità delle immagini; sintetica nell’afflato metonimico che fa del frammento, o più esattamente dell’assemblage di frammenti, il riflesso di una vicenda che sembra scorrere alla superficie della nostra coscienza, così come viene di volta in volta episodicamente trattenuta alla superficie del quadro.
Si direbbe che l’autore disegni, in questa sua interminabile sequenza, una sorta di smisurata vanitas contemporanea, dove la traccia memoriale e il residuo simbolico degli oggetti sono al tempo stesso enunciati e negati. Non a caso in uno di questi lavori compare l’immagine di una catasta di libri chiusi, sormontati da un volume ancora aperto ma illeggibile. Né è priva di significato, altrove, la presenza in primo piano di un paio occhiali opachi, diaframma che attenua lo sguardo e che passa, ancora in De Chirico (“La nostalgia del poeta”, 1914) come metafora visiva della condizione dell’artista.
La stessa pittura, ricondotta – dall’esuberanza degli anni ’80 e ’90 – alla dimensione minimale di quasi impercettibili stesure che velano appena le immagini “trovate”, fra loro connesse in impianti estesi ed armonici, pare assumere la funzione di impercettibile barriera, di schermo che conserva e distanzia, di un tempo che si deposita e che, inattingibile, sfugge.

Sandro Ricaldone