Le risposte al popolo di Seattle
di RALF DAHRENDORF


LE folle di contestatori che portarono a Seattle ad una prematura conclusione del vertice dell'Organizzazione Mondiale del Commercio erano solo l'inizio. Oggi sappiamo che tutti gli incontri internazionali ad alto livello sono accompagnati da dimostrazioni con lancio di pietre, massiccia presenza di forze di polizia e rigide limitazioni alla libertà di movimento dei normali cittadini. Il vertice del G8 a Genova rappresenterà il primo evento culminante di questa nuova esperienza, ma certo non l' ultima occasione del genere. Perché? E che cosa dobbiamo fare noi? Il primo punto fermo da stabilire è che la violenza nelle strade di paesi liberi è inaccettabile. Le democrazie hanno altri modi di esprimere punti di vista diversi, persino i più radicali. Bisogna proteggere la vita civica da gruppi decisi a provocare disordini lanciando pietre e incendiando automobili.

Ma non ci si può limitare a questo. Ci sono interrogativi a cui rispondere, incluso il più doloroso: le democrazie hanno davvero altri modi per esprimere i sentimenti condivisi da tanti sulle conseguenze della globalizzazione? Non dobbiamo illuderci: molti di quelli che non si sognerebbero mai di unirsi ai dimostranti nelle strade nutrono comunque una certa inconfessata simpatia per i loro slogan. "Dateci qualcosa di più bello della globalizzazione", recitava a Londra uno di questi. Non è peraltro semplice capire che cosa voglia il popolo di Seattle. Le sue rivendicazioni mescolano odi sconsiderati e illusioni.

Sono contro il libero commercio e a favore del Terzo Mondo, contro l'Europa e per il protocollo di Kyoto, contro il capitalismo e a favore di un qualche idillio arcadico, contro l'America e per la dolcezza e la luce. Soprattutto sono arrabbiati.

E' facile respingere le rivendicazioni del popolo di Seattle e denunciare quanto sia fallace il suo astio. Non è altrettanto facile rispondere alla sua rabbia. Lasciando da parte le minoranze che scendono in strada, c'è una rabbia diffusa dovuta alla sensazione di impotenza che provano i cittadini dei paesi democratici. Essi hanno l'impressione che importanti decisioni che riguardano le loro vite siano emigrate dalle istituzioni che essi possono controllare. Quando si tratta di decisioni chiave sembra che non abbia più importanza chi abbiano eletto nei parlamenti nazionali e a guidare i vari governi. Il futuro dell'ambiente in cui viviamo, la creazione o la distruzione di posti di lavoro da parte di grandi imprese, il destino dei poveri in patria e all'estero, il valore della nostra moneta, queste ed altre questioni vengono decise in luoghi remoti, forse in modi che sfuggono completamente ad un'identificazione.
Ecco dove sopraggiunge la minaccia della globalizzazione. Il termine è quasi un sinonimo per l'incapacità dei cittadini a gestire gli eventi che li riguardano. La reazione più innocua è di dar vita ad una controparte sotto forma di associazioni locali, talvolta regionali. Non stiamo vivendo solo la globalizzazione ma anche la glocalizzazione, cioè il simultaneo rafforzamento del processo decisionale sia a livello mondiale che prossimo a noi, sia globale che locale. In un certo senso il governo Berlusconi è una coalizione di entrambi che resta da vedere se terrà.

Ma la glocalizzazione è una reazione innocua. Più pericolosa è la rabbia che si propone di distruggere tutto quanto simbolizzi l'impotenza dei cittadini. L'anticapitalismo può diventare una forza importante a servizio di un nuovo fondamentalismo. L'antiamericanismo può condurre ad un attacco illiberale alla modernità. Ad un capo della strada della reazione arrabbiata alla globalizzazione c'è la nostalgia per una vita premoderna che nella pratica può rivelarsi disastrosa. Non è in realtà dissimile dall'ideologia del fascismo e soprattutto dal nazional socialismo, che inneggiava a sangue, terra e maternità ma praticava repressione e totalitarismo.

Ci sono quindi tutti i motivi per ripensare la democrazia alla luce dell'istanza di mantenere la globalizzazione sotto una qualche forma di controllo civico. L'Unione Europea dimostra quanto ciò sia difficile. Nonostante le belle parole del nuovo presidente del consiglio della Ue, il primo ministro belga Verhofstadt, non sembra che l'Unione stia diventando democratica nel senso stretto del termine. Può forse, e deve, diventare più trasparente, più responsabile, più sensibile alle esigenze della gente. La reazione al referendum irlandese su Nizza ricorda una battuta di Berthold Brecht che invita ad andarsi a cercare un altro popolo se il popolo non obbedisce. Una ricetta destinata a non fare troppo effetto su un'Europa democratica! Per avere trasparenza e responsabilità nella Ue è probabilmente necessario un più forte legame con le istituzioni politiche nazionali e sicuramente l'abbandono della prassi secondo la quale le decisioni vengono prese dai ministri a porte chiuse.

Ma i cambiamenti istituzionali rappresentano solo una piccola parte di ciò che bisogna fare. Molto più importante è la necessità di una visione del futuro in prosperità e libertà. Ora che ci siamo lasciati dietro le spalle l'episodio della "terza via" e che sappiamo che la globalizzazione associata a belle parole di compassione e comunità non è abbastanza, è giunto il momento di pensare in modo nuovo. Ciò avrà molto a che fare con la libertà. Viene in mente il saggio sul capitalismo di Adair Turner o "Sviluppo è libertà" di Amartya Sen.

Abbiamo più spazio di manovra in politica di quanto pensi chi considera la globalizzazione una fatalità e dovremmo usarlo.

Intanto il popolo di Seattle non andrà via. Servirà da scomodo richiamo alla necessità di progredire, il che non giustifica i mezzi di azione scelti, ma aiuta a combattere l'acquiescenza e l'apatia.


(traduzione di Emilia Benghi - “La Repubblica” - 06/07/2001)