ALLAN KAPROW. ARTE COME VITA
di Sandro Ricaldone
“All’inizio dell’autunno 1959, la Società Reuben & Kaprow inviò una circolare a un vasto gruppo di persone della zona metropolitana di New York. L’avviso incominciava: ‘Avranno luogo 18 accadimenti’ e dopo aver elencato data e luogo, invitava il lettore ‘a collaborare con l’artista, il signor Allan Kaprow, alla realizzazione di tali eventi … Come ognuna delle 75 persone presenti, Lei sarà contemporaneamente spettatore e protagonista’”. Così Michael Kirby, il grande storico del teatro americano contemporaneo, rievoca la fase preparatoria dell’evento che, nato in sordina, doveva cambiare il corso dell’arte del ‘900. Allan Kaprow era allora un artista ancora giovane (era nato nel 1927 ad Atlantic City, nel New Jersey) che si era formato alla scuola di Hans Hofmann, un pittore tedesco emigrato negli U.S.A. nel 1932 a causa del deteriorarsi della situazione politica e culturale nel suo paese, considerato il catalizzatore dell’Action Painting. Kaprow aveva iniziato la carriera artistica nel 1952, con una mostra alla Hansa Gallery di New York, dove – com’egli stesso ricorda – “erano esposti quadri composta con grande varietà di stili, indicativa però di una molteplicità d’interessi”, inclusi alcuni assemblages di materiali diversi. Sotto l’influenza della pittura di Jackson Pollock, pervasa da una gestualità ad un tempo casuale e riflessiva, capace di sovvertire la concezione tradizionale della forma innalzando lo spazio della pittura alla scala dell’environment, l’artista era negli anni immediatamente successivi approdato ad una tecnica definita “action-collage”, realizzati “afferrando a casaccio stagnola, paglia, tela, fotografie, giornali ecc.” e aggiungendo poi frammenti di quadri precedenti “che si inserivano nella composizione come frammenti autobiografici”.
Nel frattempo Kaprow, che a sua volta insegnava alla Rutgers University, aveva frequentato i corsi di composizione musicale tenuti da John Cage alla New School for Social Research di Manhattan, da cui ricava stimoli decisivi per la ricerca di un’arte totale che accolga “le specificità della vista, del suono, dei movimenti, delle persone, degli odori, del tatto”.
Di qui l’invenzione dell’“happening” (“ciò che si dà il caso che capiti”, in una definizione dell’autore), forma espressiva ad un tempo elementare e complessa, spontanea ma guidata, fatta di casualità e di attenzione.
“18 happenings in six parts” venne realizzato nell’ottobre del 1959. Lo spazio della Reuben Gallery era stato diviso in tre stanze con strutture di legno e fogli di plastica, su cui l’artista aveva dipinto, scritto o applicato oggetti (frammenti di specchio, frutti di plastica, giornali e cartoni). I partecipanti si muovevano a intervalli stabiliti fra le stanze, al richiamo di un campanello. Venivano diffusi suoni elettronici e sulle pareti erano proiettate diapositive e films. Le luci venivano accese e si spegnevano improvvisamente. Un’orchestra di quattro persone suonava cerimoniosamente strumenti-giocattolo. Una ragazza spremeva delle arance. Un uomo accendeva fiammiferi che spegneva in un bicchiere d’acqua. Alla fine gli interpreti si misero a leggere tutti insieme elenchi di parole ed esclamazioni: “eh?”, “mmmmmm”, “uh”, “Ma, “Sì”, “oooh…” ecc., per poi uscire in fila indiana dalla sala.
A questo evento tiene dietro una sequenza di lavori che arriva sino alla scomparsa dell’artista, avvenuta nel 2006 a Encinitas in California. Tra i primi e più celebri “The big Laugh” (1960) con gli artisti pop Claes Oldenburg e Jim Dine travestiti da clowns; “Coca Cola, Shirley Cannonball?” (1960), dove un gigantesco piede colpiva un pallone oblungo; “The Courtyard” (1962) in uno spazio occupato da una montagna di carta catramata (allusione al Black Mountain College, dove Cage aveva allestito una famosa performance nel 1952), che dopo aver eruttato palle di carta sul pubblico veniva scalata da una ragazza in camicia da notte, su cui si richiudeva la roccia, trasposizione ironica della “vergine sacrificata”.
L’attività di Kaprow abbraccia contemporaneamente la dimensione ambientale con “Yard” (1961), un cumulo di copertoni che riempiva il cortile della Martha Jackson Gallery, sul quale il pubblico poteva arrampicarsi e, più tardi, con “Push and Pull: A Furniture Comedy for Hans Hofmann”, (1963) l’ultima opera del periodo newyorkese, composta di due stanze il cui arredamento poteva essere modificato dagli intervenuti.
Verso la fine degli anni ’60 Kaprow ricerca nei suoi progetti una dimensione più semplice, elementare e quotidiana, piuttosto che stravagante e allusiva. A quest’ambito appartiene, per esempio, Take-Off, un’azione tenuta nell’ottobre 1974 a Genova, organizzata dalla Galleria Martini & Ronchetti nella quale i partecipanti erano chiamati a descrivere i loro gesti (vestirsi, svestirsi, disfare il letto) ed a passare l’informazione (eventualmente mentendo) ad altri, in una catena di comunicazione e di ambiguità.
La mostra di Kaprow ora allestita al Museo di Villa Croce (che nel 1998 ne aveva ospitato un workshop intitolato “Just doing/Soltanto fare”) costituisce la tappa italiana di un percorso che ha toccato Monaco, Eindhoven e Berna e si concluderà al MOCA di Los Angeles nel marzo 2008. Concepita come una sorta di archivio, raccoglie anzitutto esempi dei primi dipinti e degli “action-collages”, l’insieme dei “rearrangeable panels”, forma flessibile, tra l’assemblaggio e l’allestimento ambientale. A ricostruire i lavori successivi, per loro natura effimeri, vengono esposti manifesti, documenti fotografici, gli scores utilizzati per gli happenings, oltre ad una serie di video e documenti sonori dell’epoca. Il percorso si chiude con l’invito al pubblico a reinventare un happening, realizzandolo per conto proprio e inviando la documentazione al Museo.