KASSEL, MUNSTER 07
di Sandro Ricaldone
Come un tempo i facoltosi rampolli dell’aristocrazia britannica per completare la propria formazione compivano il loro “grand tour” nelle capitali e nelle città d’arte del continente, gli appassionati d’arte contemporanea sono stati chiamati durante l’estate in corso a percorrere un lungo itinerario che da Venezia li ha condotti, via Basilea, a raggiungere le città tedesche di Kassel e di Münster. A segnare le tappe di questo tragitto, che del “Grand Tour” ha volutamente ripreso il nome, alcune fra le maggiori rassegne internazionali, inaugurate a pochi giorni l’una dall’altra nel giugno scorso: la 52ma Biennale, documenta 12 e Skulpture Projekte 07, con l’intermezzo fieristico della 34ma Art Basel.
Mentre la manifestazione veneziana - benché pensata dal curatore, Robert Storr, come un disteso dialogo fra le opere esposte – si presenta in una controllata scansione museale nella quale gli interventi dei singoli autori finiscono per fare, ciascuno, storia a sé, l’allestimento ideato per documenta 12, dove le opere degli autori selezionati sono disseminate nelle diverse sedi e in contesti dissimili, dà vita ad una coralità decisamente più marcata.
La rassegna di Kassel propone inoltre tagli diacronici anche estesi (diverse opere risalgono agli anni ’50 e ’60 del ‘900) e pare focalizzarsi su un’arte senza star, mettendo talvolta in luce figure scarsamente conosciute in ambito internazionale. Vi compaiono infatti – accanto ad opere di John McCracken, Gerwald Rockenschaub, Trisha Brown, Atsuko Tanaka - lavori, sovente molto diversi fra loro, di Bela Kolarova, di nazionalità ceca, di Luis Sacilotto, scultore brasiliano di matrice costruttivista, così come di Mira Schendel, svizzera trapiantata in Brasile, di Charlotte Posenenske, minimalista di Wiesbaden o di Graciela Carnevale, esponente del Grupo de Vanguardia di Rosario, attivo negli anni ’60.
Un simile impianto può aprire qualche stimolante percorso laterale (a questo proposito va citato in particolare il nome di Nasreen Mohamedi, pakistana, con i suoi disegni composti di linee fittamente accostate che paiono congiungere la pratica manuale della tessitura ad una forma meditativa e quasi mistica) ma nel suo insieme si discosta da quello che dovrebbe essere - e che è stato, nelle memorabili documenta degli anni ’60 e ’70 - il compito della manifestazione: proporre l’arte nel suo divenire. I temi (“Modernity?”, “Life!”, “Education:”) su cui la rassegna dovrebbe imperniarsi, dibattuti in altrettanti numeri di una rivista pubblicata in preparazione dell’evento, non emergono con chiarezza nel percorso espositivo. Al contrario, si potrebbe affermare che l’idea di una “modernità molteplice” risulta contraddetta da una traccia di sviluppo tipicamente occidentale e di matrice avanguardistica, di cui le mille sedie cinesi di Ai Weiwei, residuo della mega-performance “Fairy Tale”, gli intrecci di corde dell’indiana Sheela Gowda o la grande piroga di taniche dell’africano Romuald Hazoumé costituiscono varianti locali piuttosto che vene alternative. Né s’intravede in mostra un approfondimento significativo sulla condizione contemporanea, nella quale l’estendersi dello “stato d’eccezione” fa decadere l’uomo dalla pienezza dell’esistenza alla “nuda vita”, riducendolo a semplice vivente. Accade semmai d’incrociare, a tratti, un’arte politicamente corretta e vagamente didattica, che si palesa talora con realistica efficacia – come nel caso del documentarista indiano Amar Kanwan, autore di un’installazione multimediale dedicate alle donne bengalesi rapite e stuprate dagli eserciti pakistani e indiani – mentre altre volte s’affida al mero accostamento di elementi simbolici (la bandiera israeliana e la kefiah in “Gris-Gris pour Israël et la Palestine” di Abdoulaye Konaté) o addirittura alla singolarità di un evento (la giraffa uccisa in un raid aereo israeliano sul Libano, esposta da Peter Friedl).
Una tendenza, questa, che trova eco a Münster. Lapidariamente definita dal critico americano Jerry Saltz “un esercizio di caos organizzato” per la difficoltà di rintracciare i lavori disseminati nel tessuto urbano, l’edizione attuale di Skulpture Projekte include infatti “Unsettling the fragments” di Martha Rosler, che colloca un’aquila del Terzo Reich ad un incrocio, ed “Aequivalenz” di Gustav Metzger, un ammasso di pietre che viene spostato di giorno in giorno, in ricordo del bombardamento inglese della città. Nella stessa linea Silke Wagner erige una statua di tre metri e mezzo dedicata a Paul Wulf, anarchico sterilizzato forzatamente dai nazisti a sedici anni, a seguito di una diagnosi di “imbecillità”. Alcune installazioni presentano invece una connotazione “verde”: Rosemarie Trockel tramuta i nudi profili metallici delle sculture minimaliste di Richard Serra in una siepe; Pawel Althamer disegna un sentiero che si perde nella campagna. Altre ancora rinnovano il gioco dello spiazzamento. Hans-Peter Feldmann decora un bagno pubblico con un vistoso lampadario. Mike Kelley allestisce in un cortile un piccolo zoo con al centro una statua di sale. Dominique Gonzalez-Foester, nel suo eccentrico “Roman de Munster”, raccoglie invece su un prato le opere delle edizioni precedenti, in scala ridotta, come in un parco giochi.
Tutto perfettamente in linea con i canoni predominanti nell’attuale stagione artistica. Secondo il giudizio concorde della critica, però, l’esito più alto, nell’ambito della rassegna di quest’anno, è stato raggiunto da Bruce Nauman con “Square Depression”, una piramide invertita al cui centro lo spettatore si trova, con lo sguardo, al livello del suolo circostante. Nauman è un grande artista, ma il fatto che il suo progetto, tardivamente realizzato, risalga addirittura al 1977 implica un verdetto sicuramente non favorevole sulla creatività espressa dalle generazioni più giovani.