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AZIONI E IDEE DEGLI ANNI '70 IN ITALIA
di Sandro Ricaldone
“Anche il futuro non è più quello di una volta”, scrive Luca Borzani in capo alle sue riflessioni sugli anni 70 che aprono il catalogo della mostra inaugurata ieri l’altro dal Museo di Villa Croce. Nulla di più appropriato per un decennio che si è concluso proprio nell’orizzonte del “No future”, amaro quanto consapevole slogan della rivolta punk.
Ma, com’è naturale, è alla rilettura di un passato – vicino eppure lontanissimo, quasi volutamente rimosso – che si volge il percorso espositivo, riportandoci a conflitti sociali e furori ideologici schermati più che risolti, ad istanze radicali di socialità e libertà oggi velate da un parziale oblio.
Alle inquadrature fotografiche intense, sovente drammatiche, di Tano D’amico, Dino Fracchia, Uliano Lucas, Francesco Radino (e, per quel che riguarda la scena genovese, di Giorgio Bergami e Francesco Leoni) si alternano lavori di artisti, filmakers e designers, a costruire un intreccio di rimandi emblematici dello spirito del tempo.
Nel nitido percorso allestito dall’Architetto Mario Piazza al grande dipinto di Guttuso “I funerali di Togliatti” (1972), che fissa l’immagine del corteo nei modi d’un realismo pittorico ormai esaurito, seguono così, secondo una sequenza tematica, opere di autori (esponenti dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale e della Body Art) impegnati nell’utilizzo delle tecnologie più recenti e nell’elaborazione di nuovi linguaggi.
Ad evocare il rapporto fra individuo e massa è l’installazione di Franco Vaccari “Lascia su questa parete una traccia del tuo passaggio” (1972), una della cosiddette “operazioni in tempo reale” in cui i visitatori erano invitati a scattare il proprio ritratto in una cabina per fototessere e ad appenderlo al muro, creando una sorta di assembramento virtuale.
Al soggetto della violenza rimanda invece, icasticamente, il lavoro di Gilberto Zorio, una pelle che reca incisa a fuoco la parola “odio” (1973), esposto accanto ai video delle azioni di Fabio Mauri nelle quali l’ideologia totalitaria occupa un posto centrale.
Attraversata la sala dedicata agli “scenari urbani”, ove campeggiano una carta d’Italia azzerata nei riferimenti toponomastici dalle cancellature di Emilio Isgrò, ed un “Paesaggio TV” (anch’esso del 1970) realizzato da Mario Schifano sostituendo l’immagine mediatica alla veduta naturale, s’incontra “La gabbia” (1962-1974) di Michelangelo Pistoletto che imprigiona fra le sue sbarre lo spettatore, affiancate dai nudi stanzoni dei manicomi fotografati da Emilio Tremolada.
Il legame tra sfera privata e politica si condensa in una riflessione sul corpo fra le rivendicazioni femministe e la documentazione video delle performances di Gina Pane, di Cioni Carpi nonché dalla celebre azione (“Imponderabilia”, 1977) di Marina Abramovic e Ulay che, nudi ai due lati d’un ingresso, alla Settimana della Performance di Bologna, divengono colonne viventi contro cui il pubblico è costretto, per accedere, a schiacciarsi.
Di qui si passa allo spazio del ludico, dell’evasione, tra le immagini del Festival di Re Nudo al Parco Lambro e la Venere di cioccolato di Vettor Pisani.
Ciò che colpisce, nell’insieme, è la distanza che separa la drammaticità del reale riflessa nei documenti fotografici dalle opere, pur qualitativamente indiscutibili, degli artisti in rassegna che - con qualche eccezione (Vaccari, Mauri, Agnetti, Abramovic) - sembrano collocarsi in una sfera fondamentalmente autoreferenziale. Sensazione che si accentua nella sezione dedicata al design, dove l’eleganza delle forme lascia spazio al più a qualche scatto fantastico (ad esempio nei divani “Bocca”, 1970, di Studio 65 e “Tramonto a New York”, 1980, di Gaetano Pesce). Non che l’arte debba rispecchiare la realtà in maniera meccanica o prescindere dai problemi della forma, ma – probabilmente – si poteva rintracciare qualcosa di maggiormente rappresentativo dell’epoca ai margini piuttosto che nel mainstream dell’arte contemporanea.