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Claudio Tempo – Rodolfo Vitone
Poeti all’estero, impiegati in patria
Paragonati
a quelli che hanno messo a rumore intere società costituite, a quelli che hanno
fatto tremare le istituzioni culturali la cui efficienza addirittura aveva
assunto le sfumature dell’intoccabilità, a quelli che al di là della Manica
hanno saputo introdurre un tarlo fastidioso nelle coscienze pur placidamente
riposanti nell’ovatta tutelare di un
conformismo a sua volta conformato dalla funzionalità effettiva di enti, di
strutture, di seguaci; a tutti quelli insomma che con il nome di “arrabbiati”,
recenti e meno, si sono catapultati in una situazione storica e morale e
l’hanno – fors’anche sottolineando la suggestione teatrale del gesto – presa
per la barba ed i capelli; paragonati a costoro i giovani che a Genova tentano
di fare qualcosa “di diverso”, di opporsi in qualche modo al cristallizzarsi –
indiscutibile – della cultura dell’ufficialità, sembrano “tremare” sotto il
peso (storico ed affettivo) di una simile qualifica. Ogni
epoca, ogni società, così come ogni città, ha avuto i “suoi arrabbiati”, meglio
ha avuto gli “arrabbiati” che le competevano. Perché – si noti bene – se una
comunità non ha “arrabbiati” non vuol dire che le cose vanno in modo così
universalmente accetto da non poterne avere, bensì che non se li merita. Questa
inquietante specie della fauna culturale vive e prospera infatti laddove esiste
il suo cibo primo (un gioco effettivo di interessi culturali) e il suo ambiente
più propizio (la speranza che la sua esistenza valga a qualcosa). Perciò,
se da un lato abbiamo ceduto alla suggestione di quel nome (ed alla fantastica
visione di una Genova percossa ed attraversata dall’infuocato, pungente,
pirotecnico vibrare di energie e falciata dal fischio di mille fruste)
dall’altro abbiamo dovuto – con quanto male in cuore solo noi lo sappiamo –
rapportarci alle cose come stanno in “casa nostra”, poco propizie per fare
acclimatare la sullodata specie culturale. Perciò “arrabbiati della cultura
genovese” e non “arrabbiati genovesi della cultura”. Scuote i baffi, “tirati” con la rabbia di un pettine
fittissimo in un segno ben arcuato, mette a fuoco con un leggero tremito del
naso gli spessi occhiali montati in tartaruga, quindi esordisce: “Cultura a
Genova?” Sembra interdetto. Richiede:
“Cultura a Genova? Sarò franco. Esiste la scuola, e tutti sanno com’è. Poi
queste poche fonti d’informazione: “Marcatré” (che anche se da Genova se n’è
dovuto andare, resta pur sempre un “fatto” nostro), “Ana etcetera”, “Tool”, “3
rosso”, la Carabaga e il Deposito. Al di là di queste riviste e di questi
“centri”, non c’é niente di niente, in fatto di cultura”. Chi parla è Lino Matti. Si qualifica poeta e scrittore,
raccomandando di tenere uniti i due termini perché staccarli tradirebbe la sua
“natura” letteraria. Pezze d’appoggio in profusione: fondatore (con altri
giovani “arrabbiati” genovesi) de “Il Marcatré”, redattore di “Tool”, libri di
poesia all’attivo, vincitore del premio “Flora” a Milano, Lino Matti è uno dei
cinque poeti italiani d’oggi tradotti nell’URSS sulla rivista letteraria
ufficiale moscovita “Inostrannaia Literatura” (ossia “Letteratura Straniera”),
collaboratore di numerose riviste letterarie in tutto il mondo (ed in Brasile,
alcuni anni fa’, un suo scritto ha fatto sequestrare – con tutte le conseguenti
“grane” del caso – una pubblicazione). Ma per vivere fa l’impiegato. “E’ meglio dire – precisa – che faccio l’impiegato per
vivere a Genova. E non sono il solo a tradire, per la pagnotta, il mestiere
dello scrivere. A Genova vivono sei persone degne di essere annoverate fra le
forze vive della letteratura contemporanea: un ormeggiatore, due rappresentanti
di commercio, un disoccupato (ex manovale della Bruzzo), un impiegato ed un traduttore
di gialli”. La pausa che segue a questa “rivelazione” è carica di uno
sguardo che meglio di ogni ulteriore parola serve da commento. Lo lasciamo
immaginare. “E’ il solito ritornello – aggiunge Lino Matti – bisognerebbe
espatriare, andare altrove. Ma io non approvo le fughe. Sono le opere che
devono espatriare, non chi le fa!”
Avvertiamo in quest’affermazione un’orgogliosa accettazione del martirio
culturale che qui da noi, a Genova, passa sotto
silenzio, nella maggior indifferenza possibile. E’ Lino Matti stesso che ce lo dice: “in determinati posti di
lavoro dove la nostra opera potrebbe essere più qualificata (ormai tutti gli
scrittori d’avanguardia si occupano di grafica n.d.r.) perché aderente
all’evoluzione dei tempi, si trovano invece persone che vi si dedicano soltanto
per caso, senza preparazione specifica e per di più completamente disinformati.
Ma a Genova sono persone di questo genere che “vanno bene”. Non ci resta che sperare e contare su quei
pochi veicoli di cultura ai quali ho fatto cenno”. Veicoli di cultura innanzi tutto sono le riviste, perché
dove vivono riviste vi è attenzione ai fatti culturali. E a Genova di riviste ne sono nate (e morte)
tante. Vissute, molto meno. Alcune di esse – ed è il caso de “Il Marcatré” –
per sopravvivere hanno dovuto cercare “ossigeno” altrove. Oggi “Il Marcatré” è forse la più importante
rivista di cultura contemporanea europea (uno specifico premio internazionale
lo comprova). Nacque perché in gruppo
di giovani – che avevano in odio l’immobilismo genovese – volle che nascesse. La loro iniziativa fu confortata dalle forze più in vista
di tutt’Italia. Genova si affacciava per la prima volta alla cultura “viva”
nazionale. Una quarantina di giornali e di riviste italiane e straniere
esclamava: “Finalmente Genova!” Per qualcuno sembrava un sogno. Ed il bello è che un sogno,
in effetti, era. Dopo 5 numeri l’ipertrofica (benedetta!) ingordigia
“culturale” milanese l’aveva fatta sua. “Genova, ancora una volta!” c’era da esclamare. Quei giovani ci rimasero male (ed è dir
poco). Lino Matti (ed altri) non si
diedero per vinti. Riprovarono – su un
piano meno clamoroso, anch’esso con ampi riflessi nazionali e internazionali –
e diedero vita a “Tool”, quaderni di scrittura simbiotica (unione del
significato delle parole con l’immagine grafica delle parole). “Perché “Tool”?” “Perché “Tool” in inglese è un termine ben preciso che
indica uno strumento nato per fare qualcosa di manuale, un scalpello, un
cacciavite, ad esempio. Insomma uno strumento nel senso più pieno e
diretto. In italiano non esiste un
termine altrettanto preciso ed altrettanto vivo”. Sulle pagine di “Tool” Lino Matti ed altri realizzano le loro
idee di “isolati” letterati genovesi.
Di quegli strani “giocolieri” delle parole che partecipano a movimenti
che la cultura ufficiale genovese trascura.
“Io cerco attraverso la tecnica del 'collage' o attraverso l’uso delle
lettere in plastica, oppure in altro modo ancora, secondo le esigenze, di
trasmettere idee in modo essenziale.
Ossia voglio creare un linguaggio “letterario” che venga recepito in
modo immediato, più direttamente di quanto avviene con la lettura pura e
semplice. Da qui l’inserimento anche di
segni grafici in un contesto verbale”. “La mia è una posizione analoga – dice Ugo Carrega – ma non
identica. Prima ancora di trasmettere
dati emotivi, è necessario che si ricostruisca un linguaggio poetico. Quello tradizionale ormai è liso e senza
possibilità di rendersi “espressivo”.
E’ necessario cioè studiare come si struttura e come può diventare
comunicativo un linguaggio. Partendo
infatti dall’idea che se uno ha qualcosa da dire deve possedere un mezzo per
dirlo, constatato che il linguaggio poetico tradizionale non permette di dire
più nulla di attuale, bisogna rifarsi agli elementi che possono rendere “vivo”,
oggi, un linguaggio (dal manifesto pubblicitario al rotocalco; dalla poesia in
senso tradizionale ai vari tipi di segni che figurano sulla carta (spazi,
parole, figure ecc.). Fatto questo, si
troveranno con maggiore precisione le cose da dire, i “temi” da trattare”. Anch’egli fondatore di “Tool”, Carrega è un nome forse
sconosciuto alla cultura ufficiale genovese, ma da alcuni considerato di primo
piano nella letteratura contemporanea italiana. Le sue “operazioni” di linguaggio sono state raccolte da riviste
di portata decisamente internazionale: “Antipiù-giù” (Torino), “Die Sonde”
(Colonia), “Marcatré” (Milano), “Chelsea Review” (New York), “Phantomas”
(Bruxelles) ecc.. Sta lavorando a due opere,
“Il culto della gioia e del ritmo” (“operazione” di connessione tra elementi
grafici ed elementi verbali) e “Rapporto fra il poeta e il suo lavoro” (poema
continuo dove vengono raccolte le varie fasi di evoluzione delle sue ricerche). Anche a lui chiediamo che cosa pensa della cultura a Genova:
“La cultura a Genova è sempre stata indietro dai trenta ai cinquant’anni. Per rimuovere questa situazione è necessario
rimuovere una mentalità. Per questa
ragione è fondamentale che funzioni una forza 'ufficiale', politica. Siamo in fase di elezioni: se al comune
andasse un assessore “aperto” sarebbe possibile fare qualcosa. Altrimenti, per vie private, sempre e
dovunque ci si troverà a cozzare contro una schiera di istituzioni che non si
rimuovono neppure con la dinamite. E
questo è il clima della provincia”. Accenniamo al trito concetto del mercantilismo genovese:
“Vorrei dire “ottuso mercantilismo”. Perché in Genova non esiste neppure la
capacità di capire che l’editoria è un fattore economico. Perciò non esistono
editori e perciò gli scrittori se ne debbono andare o fare dell’altro. Bisognerebbe che la mentalità mercantile
venisse impiegata. Allora ci sarebbe la
possibilità di creare anche delle possibilità di cultura. Quando Ezra Pound faceva in Inghilterra la
“Little Review” ha detto che il 50 per cento del materiale pubblicato era
scadente, ma ciò rendeva possibile (poiché la pubblicazione 'andava') la stampa
dell’altro 50 per cento, di valore. Del
resto chi non sa che dietro a collane “impegnatissime” ci sono vari rotocalchi
e fumetti di terz’ordine?” All’ultima
domanda Carrega risponde: “Per vivere traduco libri gialli, di guerra e di
fantascienza”. Perché “3 rosso” (che poi è verde) ha questo nome? Perché – e a questo punto par proprio di
entrare in quell’atmosfera “arrabbiata” che “sognavamo” – la rivista è nata in
un “forno” per ceramica sito appunto al civico 3 rosso di una stradina di
Sampierdarena. Luigi Tola, uno dei
redattori si è interessato di un’infinità di “fatti culturali”. Nel 1949 – era giovanissimo – partecipava
alla rivista “Il Portico”, nata a Pegli e – naturalmente – defunta. Quella rivista diffuse per prima in Italia
poeti come Dylan Thomas e Paul Eluard. Ha collaborato con decine di altre
pubblicazioni, ha scritto migliaia di “didascalie” per mostre contro la guerra,
ha partecipato come autore di “poesia visiva” a mostre in mezza Italia e
all’estero (da Parigi a Praga), è stato uno dei fondatori di quella singolare
esperienza della “Cooperativa cinematografica spettatori e produttori” che ha
realizzato il film “Achtung. Banditi!” e tanto altro ancora. Ora si dedica alla poesia “cinetica”,
“evidente” e “visiva”. E di una
complessa “forma” di critica d’arte. Gli chiediamo un’opinione sulla cultura a Genova: “il
“Marcatré” ha dovuto andarsene; “3 rosso” è appoggiato a Roma; “Nuova Corrente”
è andata a Firenze; “Ana etcetera” è conosciuta ... in Inghilterra”. Anche Tola riprende il tema della difficoltà che incontra un
intellettuale a lavorare a Genova: “Ci si trova di fronte ad un vero e proprio
rifiuto mercantile del nuovo. Per
essere riconosciuti bisogna diventare 'grossi nomi'. E per diventare grossi nomi bisogna andarsene. Eppure perché qualche cosa cambi è
necessario fermarsi.” Dedalico
dilemma. Il “3 rosso” si propone di
divulgare le sperimentazioni culturali d’avanguardia. Tola, da parte sua, mira a usare il linguaggio di tutti i giorni
(dei giornali, della pubblicità, del fumetto e così via) e l’elabora in modo da
dargli un significato nuovo. Quanto
alla sua “critica d’arte” egli ci ha detto che “il quadro mi interessa in
quanto può diventare argomento di un discorso. Ovvero ciò che interessa è il
discorso sul quadro”. Lasciamo il buio e disordinatissimo “forno” del “3 rosso” e
dispieghiamo le vele per altre “isole” culturali genovesi, sperando che abbiano
– come quelle incantate dei mari del sud – il loro bravo (ed attivissimo)
vulcano. (I - Il Corriere Mercantile, 9 giugno 1966) Gli
arrabbiati della cultura genovese “Uno stagno e molte idee” Ci abbiamo provato una decina di volte. Formato il numero
telefonico di casa Oberto (Martino ed Anna), i due “arrabbiati” di turno nel
nostro taccuino d’inchiesta, i responsabili e gli ideatori di “Ana etcetera”,
una rivista che giuoca un ruolo particolarissimo nei fatti di cultura di oggi,
la voce gentile ma fredda della pur efficientissima segretaria telefonica ci
avvisava che i signori Oberto erano fuori casa. Trenta secondi di tempo per registrare su nastro quanto
desideravamo dire e poi tanti saluti.
“Isolati” culturali va bé, ma gli Oberto sono addirittura irraggiungibili! Alla fine ci siamo decisi ad affrontare il
vuoto ed assurdo di quei trenta secondi in cui ci si trova non poco buffi,
costretti come si è a parlare ad una macchina: “Anna e Oberto carissimi, stiamo
conducendo una piccola inchiesta sugli 'arrabbiati' della cultura genovese,
ossia su quei giovani che intendono fare qualcosa di diverso da ciò che propone
la cultura ufficiale genovese. Le nostre intenzioni sono così e così. Pertanto,
visto e considerato che non possiamo concederci molte possibilità di
raggiungervi di persona, affidiamo al magnetofono la speranza di ricevere il
vostro pensiero in merito. Magari telefonicamente, magari per scritto o magari
– se ci tenete – su nastro...”.
Risponderanno? Tre giorni dopo ci perveniva l’opinione dei coniugi
Oberto. Tre fogli dattiloscritti,fitti
fitti, da cui stralciamo quanto più da vicino ci interessa e, sperando di non
travisare il loro pensiero, tenteremo di interpretare alcune frasi, decisamente
importanti ma un poco “tecniche”. “La situazione culturale genovese è, per “Ana etcetera”,
costituzionale. Infatti se operas-simo
in un grosso centro culturale, A.E. non funzionerebbe come bollettino, o come
rivista, che ha come scopo quello di stabilire contatti fra quanti sono
interessati alle operazioni sperimentali a livello 'interlinguistico'. La necessità di pubblicare gli esercizi di
A.E. si era determinata per la tipica chiusura locale di Genova. In questo modo è stato possibile aprire
contatti in area 'planetaria' pur lavorando a Genova”. Inizia a delinearsi il pensiero di due validi esponenti
della “meta cultura”, ossia di quel complesso di interessi e di ricerche non
già fatto in sede di dibattito culturale
e di vita culturale attiva, ma staccato dal mondo dei fatti concreti
della cultura per diventare esperimento
“sulla cultura”, astratta valu-tazione, problematica strumentale,
aristocra-ticamente isolata nel suo unico impegno filosofico, libero da ogni
sollecitazione d’idea o d’interesse. Infatti leggiamo: “In termini culturali,
Genova è la tipica città 'off limits', l’ombelico del mondo in sede
filosofica. Siamo nell’occhio del
tifone 'anaculturale'. Chi fa cultura e chi consuma cultura sta nei grandi
mercati culturali delle metropoli, delle Università, ad Oxford, nei 'Villages',
a St. Germain ... ma chi opera sulla cultura, chi progetta, chi 'pilota' sta a
Genova”. Dunque per Martino ed Anna Oberto il fatto che a Genova non
si faccia né si consumi cultura è un dato positivo? In un certo senso sì:
“Genova è una città seria, indifferente: vi sono più difficili le
contraffazioni, la confusione culturale che il mercato si massa e la notizia
'teledivulgata' provocano è enorme, i mercanti ed i critici pagati
dall’industria venduta al 'dio dollaro' creano il successo ed hanno bisogno di
un mercato ricco ed idiota. I genovesi
sono forse ricchi, ma non sono idioti.
Semmai sono ignoranti e indifferenti.
Il che non è poi un male perché la cultura che si può fare a Genova è
fuori commercio perché nessuno compera cultura. A Genova la cultura è un hobby, qui l’uomo è 'ludens', la nostra
città forza il braccio dell’avanguardia, quella autentica, quella dei
dilettanti: un’avanguardia 'off' (ossia
sciolta dalla suggestione e dalle esigenze di un mercato culturale)”. Abbiamo poco sopra usato il termine “aristocrazia” per
definire l’impressione che suscitano le idee e le intenzioni dei coniugi
Oberto. Non è del tutto esatto (anche
se non è del tutto errato): meglio è accettare il termine che essi stessi ci
suggeriscono: “astrazione”. “Ana
etcetera” configura uno schematico modello di cultura essenzialmente ipotetico e utopistico. L’impresa è destinata all’anti-successo
perché non è destinata ad un pubblico ma unicamente agli “operatori di
cultura”. Si danno infatti notizie
riguardanti i lavori che vengono compiuti nell’ambito di una analisi del
linguaggio (così come la prospetta Silvio Ceccato), mirando a fare della
filosofia sul linguaggio un’arte d’avanguardia. Ossia una filosofia pensata come “ars”, una filosofia
poetica. Tutto ciò in senso assolutamente
astratto da ogni impegno in qualche modo politico. “Ana etcetera” ha raggiunto (nonostante la sua “inevitabile”
circolazione privata) i maggiori centri di cultura del mondo ed è considerata
un esempio unico nel genere. Gli Oberto non sono gli unici, in Genova, a condurre una
sorta di guerra al mercato culturale e perciò non si allarmano troppo per la
deficienza della “vita culturale attiva”.
Corrado D’Ottavi, collaboratore come poeta-scrittore-grafico di riviste
nazionali ed internazionali, si definisce più semplicemente “un polemico”; ed
esordisce: “A Genova non si può parlare di cultura: c’è semplicemente qualche
attività di 'culturame'. Guarda un po’
che cosa sono a Genova le gallerie d’arte: botteghe equivalenti in tutto e per
tutto a quelle del salumiere o del droghiere.
La gente va lì e compera. Tutto
si esaurisce in questo 'contatto'. Ci
sono, è vero, la “Carabaga”, il “Deposito” e la “Polena”, che fanno qualcosa di
diverso ma hanno limiti 'corporativi' e mercantili non indifferenti anche
loro. La situazione è stagnante, senza
aperture. Ma non tutto è negativo, in
questo. Perché Genova ha il pregio di
... non avere i difetti delle situazioni non stagnanti, dove ogni idea viene
bruciata in senso commerciale. Non sarà
molto ma è già qualcosa”. Ad onor del vero ci sembra che Corrado D’Ottavi abbia fatto
suo il motto: “Chi si accontenta, gode” ed infatti aggiunge: “Genova è
stagnante perché in questa città è così.
E’ stagnante l’economia, alla quale manca ogni capacità evolutiva; è
stagnante l’assetto urbanistico, completamente chiuso, diaframmato. Ed il discorso potrebbe continuare. E’ colpa delle iniziative che 'non si sono
prese' negli ultimi vent’anni e che avrebbero potuto fare il miracolo anche di
non costringere Genova ad essere una zona sottosviluppata della cultura con
forte flusso emigratorio. Bastava che
'qualcuno' intervenisse a far sì che l’arte e la cultura potessero diventare
fonte di guadagno. Ma, visto che non è
stato così, si può gioire del fatto che qui nessuno è costretto ad adeguarsi ad
un mercato culturale, pena l’isolamento e ... la delusione economica”. E, gioendo, Corrado
D’Ottavi fa l’impiegato in una ditta di forniture navali. Nulla di male, certo, ma restiamo piuttosto
scossi quando apprendiamo che Corrado D’Ottavi è stato il primo, in Italia, a
studiare e attuare la 'poesia visiva', uno dei precursori di un orientamento
poetico-grafico che oggi ha conquistato l’interesse generale. “Comunque io non ho mai avuto intenzione di
'vendere' le mie opere. E questo mi ha
aiutato non poco a mantenere l’indipendenza interiore da ogni gruppo e da ogni
sollecitazione. Cerco di condurre
un’azione a carattere smitizzante, ossia nei miei 'quadri', dove si affiancano
parole, colori, segni grafici, elementi documentaristici (fotografie), cerco di
'svelare' le false illusioni, le suggestioni e la realtà di oggi. L’ultimo mio quadro riguarda “Africa addio”;
e non è, la mia, una polemica leggera ...”.
Non crede nella possibilità attuale di scambi d’idee in sede
cittadina ufficiale, dove la cultura “diventa museo e fatto di prestigio”; ma
crede nei contatti privati: “Anzi, dite pure che sono disposto ad incontrarmi
con chiunque fosse interessato a questo tipo di operazioni. Che mi telefonino a casa, quando
vogliono. Fornirò tutte le spiegazioni
che si vogliono”. Concludiamo la parte della nostra inchiesta dedicata agli
“arrabbiati” che si muovono nell’ambito della letteratura contemporanea e delle
riviste rivolgendoci a un giovane studioso che a Genova non è rimasto, ma che
ha partecipato (e continua a partecipare) a quei movimenti innovativi che
animano la vita culturale cittadina. Germano Celant, componente del comitato direttivo della più
recente rivista culturale genovese, “Modulo”, aveva partecipato alla creazione
di “Marcatré”, di cui tuttora fa parte. Il suo “carnet” ce lo indica come
osservatore fisso delle mostre in Italia per la Biennale di Venezia, per
“Casabella”, per “Grafis” (Parigi) come qualifica assume quella di critico
d’arte. Ha in cantiere due studi di
prossima pubblicazione (uno sul “Futurismo”, il secondo su “Pinin Farina”). A lui si deve il ciclo di conferenze
sull’arte contemporanea che ha portato una ventata di attualità nell’ambito
dell’Università. Ci ha dichiarato: “Perché esistano delle forze culturali è
necessario che vengano stimolate. Ora a
Genova manca una produzione culturale proprio perché mancano le strutture atte
a suscitarla. Il fatto che in una città
come Milano gl’intellettuali siano “copy-righter” delle società pubblicitarie è
chiaro indice di una mentalità lontanissima da quella genovese e perciò
culturalmente feconda”. Ma il fatto più
clamoroso è che a Genova non solo non si suscita una produzione culturale
attuale ma si uccidono anche quelle che, per una ragione o per l’altra,
riescono a nascere. Ed agl’infiniti
esempi alcuni dei quali abbiamo riferito al scorsa settimana, va aggiunto
quello del “Museo di Arte Contemporanea”.
Ce ne parla Celant: “Il
Professor Battisti era riuscito a costituire, con le donazioni degli stessi
artisti, un cospicuo e valido patrimonio di opere contemporanee. Ebbene Genova l’ha rifiutato. Tant’è vero che ora è stato interamente
donato al Comune di Torino”. Che
naturalmente l’ha accettato di buon grado.
Eppure nei sette giorni durante i quali quel Museo funzionò, fu visitato
da oltre mille persone, come ci testimonia Celant, che prosegue: “Insensibilità
dunque delle 'autorità competenti'. Ma
non solo. Infatti anche i librai non
'tengono' riviste d’arte contemporanea.
Dicono che nessuno le chiede. Ma
se nessuno le conosce, come fa a chiederle?”
Il dilemma di sempre. Eppure vi
sono prove evidenti che un interesse per i temi culturali di oggi sarebbe pur
possibile suscitarlo. Il Museo di Arte
Contemporanea che molto opportunamente si è rifugiato a Torino, lo
dimostra. “I giovani, soprattutto, reagiscono
positivamente e hanno sete d’informazione sui problemi attuali dell’arte e
della cultura. Anzi vedo addirittura la
possibilità di creare istituti che
'vivano' grazie ai giovani.
Naturalmente è indispensabile che in sede 'ufficiale' ci s’interessi del
problema. Dal basso possono derivare
aiuti, ma il problema di una soluzione della 'crisi' culturale genovese deve
essere risolto in sede di strutture 'ufficiali'. Ma se si pensa che neppure le biblioteche pubbliche si
aggiornano, che c’è da sperare?”. Da parte nostra non speriamo granché; ma Germano Celant –
anche se per vivere dedicandosi completamente alla cultura ha dovuto fuggire da
Genova come un lampo e trovare altrove (a Milano ed all’estero) i punti
d’appoggio con cui collaborare – si mostra in fondo meno pessimista,
sottolineando con soddisfazione il fatto che nella facoltà di Lettere della
nostra Università è stata finalmente istituita una cattedra di arte
contemporanea e rilevando come “Modulo” sia stato favorevolmente accolto fra i
giovani: “Il male è – conclude – che a
Genova esiste una struttura, legata a determinati posti di potere, infusa di
pigrizia mentale e che rifiuta la dialettica.
Genova insomma è una delle poche città ormai dove non si è ancora capito
che il progresso della cultura significa progresso della città e che la cultura
fa progredire la città”. (II - Il Corriere Mercantile, 16 giugno 1966) |
Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone | Home Top Contact |