Ana eccetera n. 1







Marcatré n. 1







Tool n. 1







3 rosso n. 0







Nuova Corrente n. 25







Delta n. 9







Poesia visiva
mostra Carabaga 1965







Martino Oberto
dal Journal Anaphilosophicus







Anna Oberto







Ugo Carrega







Corrado D'Ottavi







Lino Matti







Rodolfo Vitone







Luigi Tola




















































































































Freefind - Search this site

  Click Enter
Google - Search the Web

Click Enter






Link:
GALLERIA DEL DEPOSITO
(1963-1968)

Link:
EUGENIO BATTISTI

Link:
GLI ARRABBIATI
DELLA CULTURA GENOVESE

Link:
PER ROSA LEONARDI

 

 

 

Claudio Tempo – Rodolfo Vitone

Poeti all’estero, impiegati in patria
“Gli arrabbiati della cultura genovese”

 

Paragonati a quelli che hanno messo a rumore intere società costituite, a quelli che hanno fatto tremare le istituzioni culturali la cui efficienza addirittura aveva assunto le sfumature dell’intoccabilità, a quelli che al di là della Manica hanno saputo introdurre un tarlo fastidioso nelle coscienze pur placidamente riposanti  nell’ovatta tutelare di un conformismo a sua volta conformato dalla funzionalità effettiva di enti, di strutture, di seguaci; a tutti quelli insomma che con il nome di “arrabbiati”, recenti e meno, si sono catapultati in una situazione storica e morale e l’hanno – fors’anche sottolineando la suggestione teatrale del gesto – presa per la barba ed i capelli; paragonati a costoro i giovani che a Genova tentano di fare qualcosa “di diverso”, di opporsi in qualche modo al cristallizzarsi – indiscutibile – della cultura dell’ufficialità, sembrano “tremare” sotto il peso (storico ed affettivo) di una simile qualifica.

Ogni epoca, ogni società, così come ogni città, ha avuto i “suoi arrabbiati”, meglio ha avuto gli “arrabbiati” che le competevano. Perché – si noti bene – se una comunità non ha “arrabbiati” non vuol dire che le cose vanno in modo così universalmente accetto da non poterne avere, bensì che non se li merita. Questa inquietante specie della fauna culturale vive e prospera infatti laddove esiste il suo cibo primo (un gioco effettivo di interessi culturali) e il suo ambiente più propizio (la speranza che la sua esistenza valga a qualcosa).

Perciò, se da un lato abbiamo ceduto alla suggestione di quel nome (ed alla fantastica visione di una Genova percossa ed attraversata dall’infuocato, pungente, pirotecnico vibrare di energie e falciata dal fischio di mille fruste) dall’altro abbiamo dovuto – con quanto male in cuore solo noi lo sappiamo – rapportarci alle cose come stanno in “casa nostra”, poco propizie per fare acclimatare la sullodata specie culturale. Perciò “arrabbiati della cultura genovese” e non “arrabbiati genovesi della cultura”.

 

 

Scuote i baffi, “tirati” con la rabbia di un pettine fittissimo in un segno ben arcuato, mette a fuoco con un leggero tremito del naso gli spessi occhiali montati in tartaruga, quindi esordisce: “Cultura a Genova?”  Sembra interdetto. Richiede: “Cultura a Genova? Sarò franco. Esiste la scuola, e tutti sanno com’è. Poi queste poche fonti d’informazione: “Marcatré” (che anche se da Genova se n’è dovuto andare, resta pur sempre un “fatto” nostro), “Ana etcetera”, “Tool”, “3 rosso”, la Carabaga e il Deposito. Al di là di queste riviste e di questi “centri”, non c’é niente di niente, in fatto di cultura”.

Chi parla è Lino Matti. Si qualifica poeta e scrittore, raccomandando di tenere uniti i due termini perché staccarli tradirebbe la sua “natura” letteraria. Pezze d’appoggio in profusione: fondatore (con altri giovani “arrabbiati” genovesi) de “Il Marcatré”, redattore di “Tool”, libri di poesia all’attivo, vincitore del premio “Flora” a Milano, Lino Matti è uno dei cinque poeti italiani d’oggi tradotti nell’URSS sulla rivista letteraria ufficiale moscovita “Inostrannaia Literatura” (ossia “Letteratura Straniera”), collaboratore di numerose riviste letterarie in tutto il mondo (ed in Brasile, alcuni anni fa’, un suo scritto ha fatto sequestrare – con tutte le conseguenti “grane” del caso – una pubblicazione). Ma per vivere fa l’impiegato.

“E’ meglio dire – precisa – che faccio l’impiegato per vivere a Genova. E non sono il solo a tradire, per la pagnotta, il mestiere dello scrivere. A Genova vivono sei persone degne di essere annoverate fra le forze vive della letteratura contemporanea: un ormeggiatore, due rappresentanti di commercio, un disoccupato (ex manovale della Bruzzo), un impiegato ed un traduttore di gialli”.

La pausa che segue a questa “rivelazione” è carica di uno sguardo che meglio di ogni ulteriore parola serve da commento. Lo lasciamo immaginare. “E’ il solito ritornello – aggiunge Lino Matti – bisognerebbe espatriare, andare altrove. Ma io non approvo le fughe. Sono le opere che devono espatriare, non chi le fa!”  Avvertiamo in quest’affermazione un’orgogliosa accettazione del martirio culturale che qui da noi, a Genova, passa sotto silenzio, nella maggior indifferenza possibile.  E’ Lino Matti stesso che ce lo dice: “in determinati posti di lavoro dove la nostra opera potrebbe essere più qualificata (ormai tutti gli scrittori d’avanguardia si occupano di grafica n.d.r.) perché aderente all’evoluzione dei tempi, si trovano invece persone che vi si dedicano soltanto per caso, senza preparazione specifica e per di più completamente disinformati. Ma a Genova sono persone di questo genere che “vanno bene”.  Non ci resta che sperare e contare su quei pochi veicoli di cultura ai quali ho fatto cenno”.

Veicoli di cultura innanzi tutto sono le riviste, perché dove vivono riviste vi è attenzione ai fatti culturali.  E a Genova di riviste ne sono nate (e morte) tante. Vissute, molto meno. Alcune di esse – ed è il caso de “Il Marcatré” – per sopravvivere hanno dovuto cercare “ossigeno” altrove.  Oggi “Il Marcatré” è forse la più importante rivista di cultura contemporanea europea (uno specifico premio internazionale lo comprova).  Nacque perché in gruppo di giovani – che avevano in odio l’immobilismo genovese – volle che nascesse.

La loro iniziativa fu confortata dalle forze più in vista di tutt’Italia. Genova si affacciava per la prima volta alla cultura “viva” nazionale. Una quarantina di giornali e di riviste italiane e straniere esclamava: “Finalmente Genova!”

Per qualcuno sembrava un sogno. Ed il bello è che un sogno, in effetti, era. Dopo 5 numeri l’ipertrofica (benedetta!) ingordigia “culturale” milanese l’aveva fatta sua.

“Genova, ancora una volta!” c’era da esclamare.  Quei giovani ci rimasero male (ed è dir poco).  Lino Matti (ed altri) non si diedero per vinti.  Riprovarono – su un piano meno clamoroso, anch’esso con ampi riflessi nazionali e internazionali – e diedero vita a “Tool”, quaderni di scrittura simbiotica (unione del significato delle parole con l’immagine grafica delle parole).

 

“Perché “Tool”?”

“Perché “Tool” in inglese è un termine ben preciso che indica uno strumento nato per fare qualcosa di manuale, un scalpello, un cacciavite, ad esempio. Insomma uno strumento nel senso più pieno e diretto.  In italiano non esiste un termine altrettanto preciso ed altrettanto vivo”.  Sulle pagine di “Tool” Lino Matti ed altri realizzano le loro idee di “isolati” letterati genovesi.  Di quegli strani “giocolieri” delle parole che partecipano a movimenti che la cultura ufficiale genovese trascura.  “Io cerco attraverso la tecnica del 'collage' o attraverso l’uso delle lettere in plastica, oppure in altro modo ancora, secondo le esigenze, di trasmettere idee in modo essenziale.  Ossia voglio creare un linguaggio “letterario” che venga recepito in modo immediato, più direttamente di quanto avviene con la lettura pura e semplice.  Da qui l’inserimento anche di segni grafici in un contesto verbale”.

“La mia è una posizione analoga – dice Ugo Carrega – ma non identica.  Prima ancora di trasmettere dati emotivi, è necessario che si ricostruisca un linguaggio poetico.  Quello tradizionale ormai è liso e senza possibilità di rendersi “espressivo”.  E’ necessario cioè studiare come si struttura e come può diventare comunicativo un linguaggio.  Partendo infatti dall’idea che se uno ha qualcosa da dire deve possedere un mezzo per dirlo, constatato che il linguaggio poetico tradizionale non permette di dire più nulla di attuale, bisogna rifarsi agli elementi che possono rendere “vivo”, oggi, un linguaggio (dal manifesto pubblicitario al rotocalco; dalla poesia in senso tradizionale ai vari tipi di segni che figurano sulla carta (spazi, parole, figure ecc.).  Fatto questo, si troveranno con maggiore precisione le cose da dire, i “temi” da trattare”.

Anch’egli fondatore di “Tool”, Carrega è un nome forse sconosciuto alla cultura ufficiale genovese, ma da alcuni considerato di primo piano nella letteratura contemporanea italiana.  Le sue “operazioni” di linguaggio sono state raccolte da riviste di portata decisamente internazionale: “Antipiù-giù” (Torino), “Die Sonde” (Colonia), “Marcatré” (Milano), “Chelsea Review” (New York), “Phantomas” (Bruxelles) ecc..  Sta lavorando a due opere, “Il culto della gioia e del ritmo” (“operazione” di connessione tra elementi grafici ed elementi verbali) e “Rapporto fra il poeta e il suo lavoro” (poema continuo dove vengono raccolte le varie fasi di evoluzione delle sue ricerche).

Anche a lui chiediamo che cosa pensa della cultura a Genova: “La cultura a Genova è sempre stata indietro dai trenta ai cinquant’anni.  Per rimuovere questa situazione è necessario rimuovere una mentalità.  Per questa ragione è fondamentale che funzioni una forza 'ufficiale', politica.  Siamo in fase di elezioni: se al comune andasse un assessore “aperto” sarebbe possibile fare qualcosa.  Altrimenti, per vie private, sempre e dovunque ci si troverà a cozzare contro una schiera di istituzioni che non si rimuovono neppure con la dinamite.  E questo è il clima della provincia”.

Accenniamo al trito concetto del mercantilismo genovese: “Vorrei dire “ottuso mercantilismo”. Perché in Genova non esiste neppure la capacità di capire che l’editoria è un fattore economico. Perciò non esistono editori e perciò gli scrittori se ne debbono andare o fare dell’altro.  Bisognerebbe che la mentalità mercantile venisse impiegata.  Allora ci sarebbe la possibilità di creare anche delle possibilità di cultura.  Quando Ezra Pound faceva in Inghilterra la “Little Review” ha detto che il 50 per cento del materiale pubblicato era scadente, ma ciò rendeva possibile (poiché la pubblicazione 'andava') la stampa dell’altro 50 per cento, di valore.  Del resto chi non sa che dietro a collane “impegnatissime” ci sono vari rotocalchi e fumetti di terz’ordine?”   All’ultima domanda Carrega risponde: “Per vivere traduco libri gialli, di guerra e di fantascienza”.

 

Perché “3 rosso” (che poi è verde) ha questo nome?  Perché – e a questo punto par proprio di entrare in quell’atmosfera “arrabbiata” che “sognavamo” – la rivista è nata in un “forno” per ceramica sito appunto al civico 3 rosso di una stradina di Sampierdarena.  Luigi Tola, uno dei redattori si è interessato di un’infinità di “fatti culturali”.  Nel 1949 – era giovanissimo – partecipava alla rivista “Il Portico”, nata a Pegli e – naturalmente – defunta.  Quella rivista diffuse per prima in Italia poeti come Dylan Thomas e Paul Eluard. Ha collaborato con decine di altre pubblicazioni, ha scritto migliaia di “didascalie” per mostre contro la guerra, ha partecipato come autore di “poesia visiva” a mostre in mezza Italia e all’estero (da Parigi a Praga), è stato uno dei fondatori di quella singolare esperienza della “Cooperativa cinematografica spettatori e produttori” che ha realizzato il film “Achtung. Banditi!” e tanto altro ancora.  Ora si dedica alla poesia “cinetica”, “evidente” e “visiva”.  E di una complessa “forma” di critica d’arte.

Gli chiediamo un’opinione sulla cultura a Genova: “il “Marcatré” ha dovuto andarsene; “3 rosso” è appoggiato a Roma; “Nuova Corrente” è andata a Firenze; “Ana etcetera” è conosciuta ... in Inghilterra”.

Anche Tola riprende il tema della difficoltà che incontra un intellettuale a lavorare a Genova: “Ci si trova di fronte ad un vero e proprio rifiuto mercantile del nuovo.  Per essere riconosciuti bisogna diventare 'grossi nomi'.  E per diventare grossi nomi bisogna andarsene.  Eppure perché qualche cosa cambi è necessario fermarsi.”  Dedalico dilemma.  Il “3 rosso” si propone di divulgare le sperimentazioni culturali d’avanguardia.  Tola, da parte sua, mira a usare il linguaggio di tutti i giorni (dei giornali, della pubblicità, del fumetto e così via) e l’elabora in modo da dargli un significato nuovo.  Quanto alla sua “critica d’arte” egli ci ha detto che “il quadro mi interessa in quanto può diventare argomento di un discorso. Ovvero ciò che interessa è il discorso sul quadro”.

Lasciamo il buio e disordinatissimo “forno” del “3 rosso” e dispieghiamo le vele per altre “isole” culturali genovesi, sperando che abbiano – come quelle incantate dei mari del sud – il loro bravo (ed attivissimo) vulcano.

 

(I - Il Corriere Mercantile, 9 giugno 1966)

 

 

 

Gli arrabbiati della cultura genovese

“Uno stagno e molte idee”

 

Ci abbiamo provato una decina di volte. Formato il numero telefonico di casa Oberto (Martino ed Anna), i due “arrabbiati” di turno nel nostro taccuino d’inchiesta, i responsabili e gli ideatori di “Ana etcetera”, una rivista che giuoca un ruolo particolarissimo nei fatti di cultura di oggi, la voce gentile ma fredda della pur efficientissima segretaria telefonica ci avvisava che i signori Oberto erano fuori casa.  Trenta secondi di tempo per registrare su nastro quanto desideravamo dire e poi tanti saluti.  “Isolati” culturali va bé, ma gli Oberto sono addirittura irraggiungibili!  Alla fine ci siamo decisi ad affrontare il vuoto ed assurdo di quei trenta secondi in cui ci si trova non poco buffi, costretti come si è a parlare ad una macchina: “Anna e Oberto carissimi, stiamo conducendo una piccola inchiesta sugli 'arrabbiati' della cultura genovese, ossia su quei giovani che intendono fare qualcosa di diverso da ciò che propone la cultura ufficiale genovese. Le nostre intenzioni sono così e così. Pertanto, visto e considerato che non possiamo concederci molte possibilità di raggiungervi di persona, affidiamo al magnetofono la speranza di ricevere il vostro pensiero in merito. Magari telefonicamente, magari per scritto o magari – se ci tenete – su nastro...”.  Risponderanno?

Tre giorni dopo ci perveniva l’opinione dei coniugi Oberto.  Tre fogli dattiloscritti,fitti fitti, da cui stralciamo quanto più da vicino ci interessa e, sperando di non travisare il loro pensiero, tenteremo di interpretare alcune frasi, decisamente importanti ma un poco “tecniche”.

“La situazione culturale genovese è, per “Ana etcetera”, costituzionale.  Infatti se operas-simo in un grosso centro culturale, A.E. non funzionerebbe come bollettino, o come rivista, che ha come scopo quello di stabilire contatti fra quanti sono interessati alle operazioni sperimentali a livello 'interlinguistico'.  La necessità di pubblicare gli esercizi di A.E. si era determinata per la tipica chiusura locale di Genova.  In questo modo è stato possibile aprire contatti in area 'planetaria' pur lavorando a Genova”. 

Inizia a delinearsi il pensiero di due validi esponenti della “meta cultura”, ossia di quel complesso di interessi e di ricerche non già fatto in sede di dibattito culturale  e di vita culturale attiva, ma staccato dal mondo dei fatti concreti della cultura per diventare  esperimento “sulla cultura”, astratta valu-tazione, problematica strumentale, aristocra-ticamente isolata nel suo unico impegno filosofico, libero da ogni sollecitazione d’idea o d’interesse. Infatti leggiamo: “In termini culturali, Genova è la tipica città 'off limits', l’ombelico del mondo in sede filosofica.  Siamo nell’occhio del tifone 'anaculturale'. Chi fa cultura e chi consuma cultura sta nei grandi mercati culturali delle metropoli, delle Università, ad Oxford, nei 'Villages', a St. Germain ... ma chi opera sulla cultura, chi progetta, chi 'pilota' sta a Genova”.

Dunque per Martino ed Anna Oberto il fatto che a Genova non si faccia né si consumi cultura è un dato positivo?  In un certo senso sì:  “Genova è una città seria, indifferente: vi sono più difficili le contraffazioni, la confusione culturale che il mercato si massa e la notizia 'teledivulgata' provocano è enorme, i mercanti ed i critici pagati dall’industria venduta al 'dio dollaro' creano il successo ed hanno bisogno di un mercato ricco ed idiota.  I genovesi sono forse ricchi, ma non sono idioti.  Semmai sono ignoranti e indifferenti.  Il che non è poi un male perché la cultura che si può fare a Genova è fuori commercio perché nessuno compera cultura.  A Genova la cultura è un hobby, qui l’uomo è 'ludens', la nostra città forza il braccio dell’avanguardia, quella autentica, quella dei dilettanti: un’avanguardia 'off'  (ossia sciolta dalla suggestione e dalle esigenze di un mercato culturale)”.

Abbiamo poco sopra usato il termine “aristocrazia” per definire l’impressione che suscitano le idee e le intenzioni dei coniugi Oberto.  Non è del tutto esatto (anche se non è del tutto errato): meglio è accettare il termine che essi stessi ci suggeriscono: “astrazione”.  “Ana etcetera” configura uno schematico modello di cultura essenzialmente ipotetico e utopistico.  L’impresa è destinata all’anti-successo perché non è destinata ad un pubblico ma unicamente agli “operatori di cultura”.  Si danno infatti notizie riguardanti i lavori che vengono compiuti nell’ambito di una analisi del linguaggio (così come la prospetta Silvio Ceccato), mirando a fare della filosofia sul linguaggio un’arte d’avanguardia.  Ossia una filosofia pensata come “ars”, una filosofia poetica.  Tutto ciò in senso assolutamente astratto da ogni impegno in qualche modo politico.  “Ana etcetera” ha raggiunto (nonostante la sua “inevitabile” circolazione privata) i maggiori centri di cultura del mondo ed è considerata un esempio unico nel genere.

Gli Oberto non sono gli unici, in Genova, a condurre una sorta di guerra al mercato culturale e perciò non si allarmano troppo per la deficienza della “vita culturale attiva”.  Corrado D’Ottavi, collaboratore come poeta-scrittore-grafico di riviste nazionali ed internazionali, si definisce più semplicemente “un polemico”; ed esordisce: “A Genova non si può parlare di cultura: c’è semplicemente qualche attività di 'culturame'.  Guarda un po’ che cosa sono a Genova le gallerie d’arte: botteghe equivalenti in tutto e per tutto a quelle del salumiere o del droghiere.  La gente va lì e compera.  Tutto si esaurisce in questo 'contatto'.  Ci sono, è vero, la “Carabaga”, il “Deposito” e la “Polena”, che fanno qualcosa di diverso ma hanno limiti 'corporativi' e mercantili non indifferenti anche loro.  La situazione è stagnante, senza aperture.  Ma non tutto è negativo, in questo.  Perché Genova ha il pregio di ... non avere i difetti delle situazioni non stagnanti, dove ogni idea viene bruciata in senso commerciale.  Non sarà molto ma è già qualcosa”.

Ad onor del vero ci sembra che Corrado D’Ottavi abbia fatto suo il motto: “Chi si accontenta, gode” ed infatti aggiunge: “Genova è stagnante perché in questa città è così.  E’ stagnante l’economia, alla quale manca ogni capacità evolutiva; è stagnante l’assetto urbanistico, completamente chiuso, diaframmato.  Ed il discorso potrebbe continuare.  E’ colpa delle iniziative che 'non si sono prese' negli ultimi vent’anni e che avrebbero potuto fare il miracolo anche di non costringere Genova ad essere una zona sottosviluppata della cultura con forte flusso emigratorio.  Bastava che 'qualcuno' intervenisse a far sì che l’arte e la cultura potessero diventare fonte di guadagno.  Ma, visto che non è stato così, si può gioire del fatto che qui nessuno è costretto ad adeguarsi ad un mercato culturale, pena l’isolamento e ... la delusione economica”.

E,  gioendo, Corrado D’Ottavi fa l’impiegato in una ditta di forniture navali.  Nulla di male, certo, ma restiamo piuttosto scossi quando apprendiamo che Corrado D’Ottavi è stato il primo, in Italia, a studiare e attuare la 'poesia visiva', uno dei precursori di un orientamento poetico-grafico che oggi ha conquistato l’interesse generale.  “Comunque io non ho mai avuto intenzione di 'vendere' le mie opere.  E questo mi ha aiutato non poco a mantenere l’indipendenza interiore da ogni gruppo e da ogni sollecitazione.  Cerco di condurre un’azione a carattere smitizzante, ossia nei miei 'quadri', dove si affiancano parole, colori, segni grafici, elementi documentaristici (fotografie), cerco di 'svelare' le false illusioni, le suggestioni e la realtà di oggi.  L’ultimo mio quadro riguarda “Africa addio”; e non è, la mia, una polemica leggera ...”. 

Non crede nella possibilità attuale di scambi d’idee in sede cittadina ufficiale, dove la cultura “diventa museo e fatto di prestigio”; ma crede nei contatti privati: “Anzi, dite pure che sono disposto ad incontrarmi con chiunque fosse interessato a questo tipo di operazioni.  Che mi telefonino a casa, quando vogliono.  Fornirò tutte le spiegazioni che si vogliono”.

Concludiamo la parte della nostra inchiesta dedicata agli “arrabbiati” che si muovono nell’ambito della letteratura contemporanea e delle riviste rivolgendoci a un giovane studioso che a Genova non è rimasto, ma che ha partecipato (e continua a partecipare) a quei movimenti innovativi che animano la vita culturale cittadina.

Germano Celant, componente del comitato direttivo della più recente rivista culturale genovese, “Modulo”, aveva partecipato alla creazione di “Marcatré”, di cui tuttora fa parte. Il suo “carnet” ce lo indica come osservatore fisso delle mostre in Italia per la Biennale di Venezia, per “Casabella”, per “Grafis” (Parigi) come qualifica assume quella di critico d’arte.  Ha in cantiere due studi di prossima pubblicazione (uno sul “Futurismo”, il secondo su “Pinin Farina”).  A lui si deve il ciclo di conferenze sull’arte contemporanea che ha portato una ventata di attualità nell’ambito dell’Università.

Ci ha dichiarato: “Perché esistano delle forze culturali è necessario che vengano stimolate.  Ora a Genova manca una produzione culturale proprio perché mancano le strutture atte a suscitarla.  Il fatto che in una città come Milano gl’intellettuali siano “copy-righter” delle società pubblicitarie è chiaro indice di una mentalità lontanissima da quella genovese e perciò culturalmente feconda”.  Ma il fatto più clamoroso è che a Genova non solo non si suscita una produzione culturale attuale ma si uccidono anche quelle che, per una ragione o per l’altra, riescono a nascere.  Ed agl’infiniti esempi alcuni dei quali abbiamo riferito al scorsa settimana, va aggiunto quello del “Museo di Arte Contemporanea”.  Ce ne parla Celant:  “Il Professor Battisti era riuscito a costituire, con le donazioni degli stessi artisti, un cospicuo e valido patrimonio di opere contemporanee.  Ebbene Genova l’ha rifiutato.  Tant’è vero che ora è stato interamente donato al Comune di Torino”.  Che naturalmente l’ha accettato di buon grado.  Eppure nei sette giorni durante i quali quel Museo funzionò, fu visitato da oltre mille persone, come ci testimonia Celant, che prosegue: “Insensibilità dunque delle 'autorità competenti'.  Ma non solo.  Infatti anche i librai non 'tengono' riviste d’arte contemporanea.  Dicono che nessuno le chiede.  Ma se nessuno le conosce, come fa a chiederle?”  Il dilemma di sempre.  Eppure vi sono prove evidenti che un interesse per i temi culturali di oggi sarebbe pur possibile suscitarlo.  Il Museo di Arte Contemporanea che molto opportunamente si è rifugiato a Torino, lo dimostra.  “I giovani, soprattutto, reagiscono positivamente e hanno sete d’informazione sui problemi attuali dell’arte e della cultura.  Anzi vedo addirittura la possibilità di creare istituti che  'vivano' grazie ai giovani.  Naturalmente è indispensabile che in sede 'ufficiale' ci s’interessi del problema.  Dal basso possono derivare aiuti, ma il problema di una soluzione della 'crisi' culturale genovese deve essere risolto in sede di strutture 'ufficiali'.  Ma se si pensa che neppure le biblioteche pubbliche si aggiornano, che c’è da sperare?”.

Da parte nostra non speriamo granché; ma Germano Celant – anche se per vivere dedicandosi completamente alla cultura ha dovuto fuggire da Genova come un lampo e trovare altrove (a Milano ed all’estero) i punti d’appoggio con cui collaborare – si mostra in fondo meno pessimista, sottolineando con soddisfazione il fatto che nella facoltà di Lettere della nostra Università è stata finalmente istituita una cattedra di arte contemporanea e rilevando come “Modulo” sia stato favorevolmente accolto fra i giovani:  “Il male è – conclude – che a Genova esiste una struttura, legata a determinati posti di potere, infusa di pigrizia mentale e che rifiuta la dialettica.  Genova insomma è una delle poche città ormai dove non si è ancora capito che il progresso della cultura significa progresso della città e che la cultura fa progredire la città”.

 

(II  -  Il Corriere Mercantile, 16 giugno 1966)

   

 

 

 

Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone      Home      Top      Contact