GLI STRANI CONTI DEL SIGLO
Per la cronaca la questione del bilancio della mostra “El
Siglo de los Genoveses” è ormai invecchiata. La conferenza stampa in cui è
stato presentato risale infatti a fine luglio. I titoli apparsi sulla stampa
locale parlano di “miracolo” e, in realtà, non sono ingiustificati.
Centoventiseimila visitatori sono davvero tanti, anche per una mostra durata
sette mesi. Molto meno credibili le analisi che sono state proposte intorno
alla provenienza dei visitatori, alla composizione del pubblico ed alla
valutazione dei benefici, in cui gli introiti degli organizzatori e le ricadute
sulla città sono stranamente mescolate.
Per ciò che riguarda il primo
aspetto, l’indagine commissionata dalla Società che gestisce Palazzo Ducale e
dal Comune propone una ripartizione dei visitatori a un di presso paritetica
fra residenti e non (questi ultimi sarebbero per il 14% liguri, per il 13%
lombardi, per l’8% piemontesi, per il 3,5% stranieri e per il resto italiani di
varia allocazione). Il visitatore tipo viene invece collocato in una fascia
d’età sopra i 45 anni, pensionato, casalinga o impiegato. In proposito va
rilevato che la ristrettezza del campione (0,82%) e soprattutto la sua
intrinseca casualità consente deduzioni solo di larga massima. I dati sulla
provenienza dei visitatori sembrano quindi più ipotetici che reali, salvo forse
per ciò che attiene all’afflusso di stranieri.
E, quanto alla tipologia
tracciata, si nota che non tiene conto dell’utenza scolastica, che pure deve
aver rappresentato una quota non secondaria di presenze.
Ancor più vaga la base del
computo dei benefici derivati dall’iniziativa, che sarebbero ascesi addirittura
a 12,2 miliardi. A prescindere dalla confusione già rimarcata fra i soggetti
destinatari dei benefici di cui si ragiona, discutibile appare l’inserimento in
quest’ambito dell’importo (1,147 miliardi) delle retribuzioni corrisposte, sul
presupposto non dimostrato che gli addetti non avrebbero svolto altra attività
economica nel periodo di assunzione. A questa stregua, fra l’altro, le somme
incassate con la vendita dei biglietti andrebbero considerate non un beneficio
ma un costo, andando ad incidere sulle disponibilità dei fruitori. Del pari
criticabile l’inclusione del “valore della comunicazione” relativa alla mostra (azioni p.r., articoli
di stampa, servizi televisivi stimate 1,874 miliardi), non assimilabile al
valore di un marchio o di un avviamento aziendale ma soggetta a rapido
decadimento. Né poi si comprende in
alcun modo su quali basi sia stato valutato l’“indotto turistico” (5,6
miliardi). Potrebbe esser stato maggiore o minore (soprattutto se, come appare
probabile, la visita alla mostra non è stata la ragione determinante del
soggiorno a Genova). In ogni caso i trionfali resoconti giornalistici non illustrano
minimamente i parametri utilizzati.
Questa velleità di rivestire
di risvolti economici un evento culturale, di farne un emblema della capacità
di amministrare degli organi comunali e delle entità connesse è però in fin dei
conti secondaria. Quel che importa è comprendere le ragioni di un successo
indubitabile. Cosa non facile, visto che la mostra (vedi recensione) in sé stessa era di livello
insoddisfacente, soffocata fra un allestimento retorico e la qualità non
eccelsa della grande maggioranza dei pezzi esposti, certamente non adeguata
agli standards vigenti nell’arco
di tempo corrispondente al “Siglo”.
Un primo blocco di ragioni
riguarda il contenitore: Palazzo Ducale è vincente per la sua collocazione
centrale e per l’accessibilità sia con i trasporti pubblici che con mezzi
privati (vedremo cosa succederà con il nuovo piano del traffico), per la
bellezza e la valenza storica dei suoi spazi. Altra circostanza influente,
connessa all’attività del Ducale, è stata senz’altro la recente mostra di Van
Dyck (questa sì di grande portata), che ha determinato nel pubblico una sorta
di pregiudizio favorevole al nuovo evento. E - ancora – va rimarcato l’apporto
dato dalla lunga durata, che ha consentito di ottimizzare le possibilità di
accesso.
Il fatto, poi, che il baricentro
dell’esposizione inclinasse su un versante storico ha rappresentato un dato
relativamente nuovo nella situazione genovese, apprezzato anche per la maggiore
accessibilità al pubblico del materiale esposto, godibile al di là di
specifiche conoscenze artistiche. Né ha mancato di incidere, per i residenti,
il risvolto localistico, un ambiguo orgoglio per l’esaltazione delle glorie
patrie (talvolta stranamente identificate nelle più brucianti umiliazioni).
In gioco entra anche l’aspetto
dimensionale, il gigantismo della mostra e la varietà dei pezzi, dalle palle di
cannone ai ritratti dogali, dagli argenti agli arazzi. Sottolineato da un
allestimento scenografico, con specchi e velluti profusi senza risparmio da
Pier Luigi Pizzi, un maestro che si è fatto prendere la mano e ha portato la
cornice a prevalere sulle opere e sulla struttura storica del palazzo,
inseguendo attraverso l’eccesso una suggestione che non si è realizzata. Un
allestimento che, azzardiamo, proprio per i suoi risvolti al limite del kitsch potrebbe
esser stato una delle componenti del successo della manifestazione.
Da questa miscela di fattori,
apprezzabili o meno, non sembra comunque si possa estrapolare una formula
valida per il futuro. In parte per il fatto che la materia comincia a
scarseggiare, dopo il tour de force delle rassegne dedicate a Genova
Barocca, Puget, Strozzi, Van Dyck e, ovviamente, al Siglo (si è parlato di una
nuova mostra su Rubens, ma poi?). E in parte perché le carte degli allestimenti
e della storia locale, se giocate ripetutamente, finiranno con il risultare
sempre meno incisive.
I programmi a venire contemplano
mostre di opere di autori liguri dalle collezioni dell’Hermitage di
Pietroburgo, un “Voyage en Italie” nella primavera 2001, in concomitanza con il
G8. Per il prossimo novembre viene annunciata una rassegna intitolata “Seta e
lusso nella Repubblica di Genova dal Rinascimento al Neoclassicismo”. Iniziative che avranno tutte numerosi motivi
di interesse ma che evidenziano più una prudente astuzia che qualche audacia
nella programmazione. L’antico impasto di vizi e virtù ligustiche sembra salvo.
Assai meno il rilancio di un autonomo ruolo culturale della città. Su questa
linea, che taglia completamente fuori il contemporaneo, all’appuntamento con il
2004 (Genova capitale europea della cultura) si arriverà completamente
sbilanciati e poco credibili. Rendere omaggio al passato ha senso in una
prospettiva rivolta al futuro. Rinchiudersi fra Dogi e cantautori è un sintomo
di claustrofilia. Il flop delle
celebrazioni per il cinquecentenario colombiano del 1992 non è stata lezione
sufficiente?
Nota:
Dopo aver steso queste
considerazioni leggiamo su Exibart: “El Siglo (De oro?). Luci e ombre nel calcolo
‘costi-benefici’ di una grande mostra” un articolo
che sul punto trae – in via del tutto indipendente - conclusioni
sostanzialmente analoghe alle nostre. Ci auguriamo che il moltiplicarsi delle
opinioni dissenzienti valga ad indurre i responsabili a riflessioni più
avvertite.
CEAL FLOYER APRE LA NUOVA STAGIONE DI PINKSUMMER
Prosegue senza soste l’attività
di Pinksummer, lo spazio d’arte attivato lo scorso inverno da Antonella Berruti
e Francesca Pennone al secondo piano di uno storico palazzo di Via Lomellini.
Dopo l’accoppiata Muratami-Manetas, la performance di Carsten Nicolai e la
personale di Christian Schmidt-Rasmussen, viene ora presentata una mostra di
Ceal Floyer (nata a Karachi, in Pakistan, nel 1968, residente a Londra), la cui
comparsa in Italia risale alla Biennale veneziana del 1995 (“General Release:
Young British Artists at Scuola di San Pasquale”), seguita da altri eventi
romani e in specie dalla personale alla Galleria Primo Piano (1998). L’artista
ha partecipato nel 1998 alla XI Biennale di Sidney mentre nel 1999 la
Kunsthalle di Berna le ha dedicato una rassegna. Suoi lavori sono inclusi nella
mostra itinerante “Mirror’s Edge” curata da Okwui Enwezor (direttore della XI
edizione di Documenta), visibile al Castello di Rivoli dal prossimo 4 ottobre.
“Il lavoro di Ceal Floyer” - ha scritto Marco Codognato –
“verte sull'enigmatico e franco minimalismo tautologico del suo intervento e
sul processo temporale di intendimento dello stesso da parte dello spettatore.
Un processo determinato dalla estrema semplicità e praticità del suo
procedere”.
L’artista sembra inaugurare una nuova forma di
straniamento, costruendo opere di assoluta essenzialità ed eleganza in cui
oggetti e gesti quotidiani divengono tramite di una riflessione sulla natura
della percezione visiva.
Tipico in questo senso Light Bulb Wall (1996) in
cui un faretto proietta in galleria la sua luce sullo spazio che normalmente
sarebbe stato occupato da un quadro nel quale invece, grazie ad un sistema di
ingrandimento compaiono gli elementi identificativi ed i dati tecnici
dell’apparecchio.
Così come Monocrome Till Receipt (White) (1998) in
cui Ceal Floyer destabilizza ironicamente un topos fondamentale del
modernismo contemporaneo, dedicandogli lo scontrino di un supermercato in cui è
documentato l’acquisto di biancheria rigorosamente bianca. O Bucket (1999): un secchio nero disposto sul
pavimento nel quale è nascosto un registratore che emette il suono prodotto da
uno sgocciolio.
La mostra verrà inaugurata il 9 settembre alle 18 e rimarrà visibile sino al 24 Ottobre.
L'8 settembre alle 18 l'artista terrà una conferenza a Palazzo Ducale nei locali del Centro della Creatività.
CESAR DOMELA A LUGANO
Si
inaugura il 15 settembre al Museo Cantonale d’Arte di Lugano un’ampia
retrospettiva dedicata a Cesar Domela. L’esposizione ripercorre la sua
complessa vicenda creativa dagli esordi (documentati da un paesaggio del 1922,
di impianto cubista) all’adesione al Neoplasticismo; dalla creazione dei
celebri Reliefs, con cui introduce la terza dimensione nel quadro, ai
fotomontaggi.
La
mostra è curata dal Direttore del Museo, Marco Franciolli, con i galleristi
genovesi Alberto Ronchetti
e Gianni Martini.
Catalogo Skira.
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