In occasione
della mostra organizzata dalla Fondazione Eugenio Guglielminetti
presso il Centro per la Cultura e per l’Arte Luigi Bosca di Canelli, pubblichiamo, a proposito della figura di Gianni Polidori, un
testo di Carlo Romano, redattore della "Biblioteca
dell’Egoista”, sito di cui invitiamo a scoprire i materiali che spaziano dalla letteratura al cinema, dalle avanguardie
alle ideologie, dall'estetica alla storia locale.
Scenografia per Il prigioniero di Villiers de L'Isle-Adam
Roma, Teatro dell'Opera, 1964.
Carlo
Romano
POLIDORI
Conobbi
Polidori in libreria. Erano gli anni ottanta, facevo, con mio fratello, il
libraio. Delle tante persone che si incontrano nel fare il negoziante poche
restano poi veramente amiche. Non più di quelle che si sarebbero potute conquistare
altrimenti. L'amicizia è anche un impegno e troppi impegni non si possono
prendere, non ci si riesce materialmente. Non bastano il calore degli incontri o la provvidenzialità dei soccorsi,
quando occorrono, a fare l'amico. Nell'amicizia ci si sceglie come nell'amore,
forse con minor determinazione, ma in modo analogo. In libreria Polidori veniva
dapprima in compagnia di Lele Luzzati, più per chiudere un incontro -una
passeggiata, uno scambio di idee- che, mi sembrava, per iniziarlo. Con mio fratello
si intese quasi subito. Io lo trovavo invece francamente antipatico e permaloso
all'eccesso. Ero ancora giovane e, credo, abbastanza attrezzato come senso
dell'umorismo, ma incedevo volentieri al sarcasmo e capitava, a volte -senza
venir mai del tutto meno alla gentilezza- di essere pesante. Con Polidori
tuttavia non era mai accaduto, eppure lo vedevo, a un minimo accenno di
conversazione, ritrarsi come fosse indignato. Poi lo vidi capitare da solo e
sempre più frequentemente. Si era inserito piano piano nelle ordinarie facezie
che accompagnano, rendendola più sopportabile, l'attività di negozio, la quale
costa più fatica di quello che comunemente si crede. Dovetti allora constatare
che se io non avevo contato su di lui, lui, viceversa, mi aveva scelto. In
questi casi o si cerca quanto più elegantemente di sottrarsi, o si scappa senza
mezzi termini, o si cede. A questo punto cedere non mi fu difficile poiché
avevo ormai capito quanto Polidori
-come me, ma con diverse strategie di camuffamento- fosse in realtà timido e
non altezzoso come dapprima mi era apparso. Arrossiva spesso, anche se non era
facile rendersene conto dietro il viso abbronzato. Senza la più schietta
opportunità di aggancio colta da mio fratello, dubito tuttavia che saremmo mai
diventati amici.
Polidori
non possedeva in alcun grado i tic più tipici dell'artista o
dell'intellettuale. Aveva piuttosto l'aria di un artigiano. Portava
perennemente -avesse o meno la giacca-
la camicia fuori dai pantaloni come fosse la cappa da lavoro. Nelle situazioni
più "ufficiali" si limitava a sostituire la quotidiana camicia a
scacchi con una bianca. A mia impressione non c'era niente di snobistico in
questo né, credo, volesse scimmiottare la tuta di Bertolt Brecht per rendere
manifesta un'immaginaria appartenenza al proletariato. Se aveva degli snobismi,
non era affatto uno snob. Il particolare della camicia non pregiudicava, in
ogni caso, l'aspetto ordinato che, anzi, curava. Teneva in modo particolare
alle scarpe, cosa che l'esperienza mi fa credere sia comune a tutti coloro che
intendono mandare un segnale di buon gusto a dispetto di un'apparenza perfino
scialba.
Amava
Genova e in modo struggente, cosa quasi incredibile per un romano. Polidori era
un malinconico, e questo spiega forse la ragione di un affetto che non aveva
paragone con altre città che conosceva bene, con Roma stessa. Gli piaceva
addirittura la strada dove abitava, via Burlando. Amava anche la poesia, ma non
erano di sicuro i sedimenti sbarbariani presenti sotto casa a fargliela apprezzare.
Nemmeno credo che prestasse attenzione, lui scenografo con studi artistici alle
spalle, all'edificio religioso progettato da Ludovico Quaroni (uno dei più
interessanti del novecento, a mio parere) che gli bastava raggiungere scendendo
le scale. Un genovese di vecchia data riesce forse ancora ad indovinare, dietro
le offese urbanistiche e architettoniche al paesaggio, qualcosa degli antichi
orti meticolosamente divisi che c'erano
prima dei palazzoni, quell'aspetto di grande giardino ornato di case coi tetti
grigi che impressionava i viaggiatori di una volta al pari dei marmi e delle
ardesie copiosamente distribuiti. Che ci riesca un romano è quasi impensabile.
Polidori doveva esserci riuscito, ma ne parlava con umiltà, come un forestiero
che dovesse pazientemente essere guidato
in tutto ciò che aveva in realtà capito da solo. Parlava invece con
entusiasmo (e non era facile a lasciarsi andare) dell'insolito appuntamento che
aveva con una famiglia di gabbiani. A una certa ora del giorno, senza che il
cielo fosse attraversato da un insetto, gli bastava mettere la mano fuori dalla
finestra perché apparisse all'improvviso un gruppo di volatili. Gli lanciava
degli avanzi di cibo. Diceva che niente toccava mai terra. Una cosa del genere,
stando al racconto che ne faceva, io l'avrei buttata sulla superstizione, ne
avrei fatto più un argomento di magia che di compassione, ancorché gli animali
mi stiano a cuore. In lui era invece uno dei rari momenti nei quali
l'esaltazione della vita prendeva il sopravvento sulla malinconia. Ma anche
questo, a ben guardare, era un modo malinconico di dimostrarlo.
Il suo
lavoro lo raccontava con un misto di partecipazione e di distacco. Benchè
avesse studiato scenografia all'Accademia di Belle Arti, e con tutte le cose
importanti che aveva realizzato, non so dire fino a che punto si sentisse
"scenografo". Nemmeno so fino a che punto amasse veramente il teatro.
Di sicuro non lo appassionava o, perlomeno, non lo appassionava più. Diverso il
caso del cinema. Polidori aveva curiosità per tutte le novità tecnologiche e
per gli uomini della sua generazione il cinema lo era ancora. A Genova
frequentava abbastanza assiduamente un negozio che trattava questo genere di
novità e non mascherava la sua contentezza per essere entrato nelle grazie dei
suoi conduttori. A noi non esitava di confidare i progressi che otteneva
applicandosi -si dice molto segretamente- a un progetto di spettacolo puramente
oggettuale che aveva filmato. Aveva composto anche le musiche. Di questa
sperimentazione è rimasta, a me e a mio fratello, la tastiera elettronica con la quale le aveva coraggiosamente
elaborate. Della musica era più che altro un
buon ascoltatore, e se anche naturalmente un po' fissato su quel jazz
che la sua generazione aveva vissuto come una redenzione, accettava di buon
grado di farsi trascinare in altre regioni dell'udito.
Polidori
non era attratto dalle conversazioni di carattere schiettamente speculativo
(pochi, in effetti, lo sono) e sfuggiva a qualsiasi sentore di inflessione
dottrinale. Dava l'idea di accettare le gerarchie estetico-artistiche così come
una certa tradizione gliele aveva trasmesse, senza metterle mai apertamente in
discussione. Nei fatti le sue vedute erano più ampie di quello che sembrava
ammettere. Quando, soprattutto con mio
fratello, si parlava di cinema, in particolare del suo, evitava di
pavoneggiarsi con i nomi di Antonioni e Visconti, attraverso i quali, solo
quelli, si tende ancora ad avvalorare
la qualità del suo contributo. Da parte nostra, viceversa, si esprimeva -senza
pregiudizi ma anche senza alcuna concessione al conformismo degli
intramontabili cultori del "cinema d'arte"- più d'una riserva nei
confronti dei due registi. Apprezzava tuttavia che dicessimo bene de I vinti di Antonioni -che ritengo
essere uno dei rari film veramente intrinseci alla realtà giovanile del
dopoguerra- benché all'episodio più costruito, quello inglese, Polidori non
avesse messo mano. Se comunque poteva andar fiero, giustamente, del Bellissima di Visconti, trattava con
eguale rispetto Mio figlio Nerone di
Steno o Maciste contro il vampiro di
Gentilomo. Mio fratello lo stupì nell'esaltazione di un film allora per niente
discusso (ma non è che le cose siano granché cambiate) e sotto vari aspetti
eccezionale: Un ettaro di cielo di
Aglauco Casadio. Quest'unica prova registica di un poeta ignorato dalle
enciclopedie della letteratura, tentava di dar corpo ai più quotidiani
sentimenti poetici in una chiave surreal-popolare piuttosto originale rispetto
agli stessi modelli zavattiniani. E ci riusciva (Casadio lo aveva sceneggiato
insieme a Petri, Flaiano e Guerra) .
E', per altro, uno dei pochi film nei quali Marcello Mastroianni mi paia
assolutamente adeguato al suo compito d'attore. Ciò di cui Polidori mostrava di parlar più volentieri era però la
sua collaborazione a Il disco volante
di Tinto Brass. Negli ultimi tempi, assai attivo con la fotocopiatrice, aveva foggiato un fascicolo che corrispondeva
a una sorta di contraffazione di vecchi quaderni di lavoro relativi al film. Vi
aveva inserito anche un richiamo alle nostre celie di libreria, da lui vissute
con molta cautela.
A volte
sembrava voler dire di aver intrapreso la sua carriera di scenografo, non
importa se brillante, a scapito di inclinazioni più elevate quali probabilmente
riteneva fossero la pittura e la poesia. In pittura, per quello che ne so e per
quello che ho visto, era patente l'influenza di Corrado Cagli, affermata del
resto con orgoglio. Tuttavia, anche in questo campo incedeva volentieri a
misurarsi con tecniche disparate. Della
"poesia visiva", ad esempio,
non sapeva molto -nel senso che non era interessato agli aspetti
agitatori di chi la faceva- ma ricordo di aver osservato in casa sua alcuni
quadri, pochi e suggestivi, del tutto
pertinenti al meglio del genere, risolto però in una chiave di disperata
espressività. Nel suo periodo di irrequieta attività con la fotocopiatrice si
era dato inoltre a produrre numerose cartoline che spediva agli amici, ma fu
reticente a inserirsi nei circuiti della "mail-art", i soli che avrebbero
potuto veramente assorbire per intero la smania del momento, tanto era
pressante. Appassionato di letteratura, specialmente di poesia, si avvicinava
alle nuove letture quasi per caso, tralasciando di impegolarsi -come fanno in
genere i cultori- nei tragitti disegnati dalle piccole rivistine di tendenza.
Da giovane aveva fatto l'editore con nessuna altra soddisfazione che quella di
farlo. Fu il primo editore della Storia
della poesia ceca di Ripellino, del quale era buon amico. Le sue
"edizioni d'Argo" pubblicavano delle cartelle in fogli sciolti che
alternavano il testo a tavole firmate di tiratura limitata. Doveva pubblicare
una cartella del genere a Charles Olson, ma non mi è chiaro se l'abbia poi fatto. Polidori mi regalò un messaggio
del poeta americano frettolosamente scritto quarant'anni prima sulla carta
intestata di un albergo romano. Olson, che stava partendo, si riprometteva di parlare in seguito del
progetto. Ho letto che il libro si fece, ma dovrei vederlo per convicermene.
A
un certo punto, fra mille dubbi, decise di tornare a Roma. Diceva che si
sentiva invecchiare e gli avrebbe fatto piacere stare vicino alla famiglia. A
niente valsero le rassicurazioni di mutua assistenza degli amici.
Evidentemente, per quanto lontano da numerosi anni, continuava a sentire la
moglie e le figlie come qualcosa di insostituibile. Mi viene in mente che
quando in libreria ci si lasciava andare nei triti quanto scurrili
apprezzamenti relativi al sesso femminile, lui si sbilanciasse poco, con al
massimo un generico "bella donna". Questa sua riservatezza più che da
un assurdo timore della volgarità doveva dunque essere dettata da una forma di
rispetto nei confronti delle donne di famiglia. Nella sua decisione di lasciare
Genova, nonostante la determinazione, ebbe anche molto tatto con gli amici,
evitando per quanto più gli era possibile, che si sentissero traditi. A noi
telefonava tutte le settimane, fino alla fine, e ci faceva chiaramente capire
come gli mancassimo. Quando morì scoprimmo che aveva da tempo dettato l'estremo
saluto affinché fosse pubblicato sui giornali romani e genovesi.
La mostra di Polidori, allestita in prevalenza con
materiali provenienti dal Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, che
custodisce opere e documenti donati dall’artista, potrà essere visitata a
Canelli, in Via Giuliani 21, sino al 20 novembre 2000, tutti i giorni dalle 17 alle 20 (la domenica anche dalle 10 alle 12). Alla mostra si affianca
un catalogo edito da Lindau con testi di Maria Ida Biggi, Marco Sciaccaluga,
Aldo Vigano e un’intervista a Lele Luzzati di Monica Paradiso.