BIENNALE 2005: PRIMA
Talvolta può essere il successo universale di una formula a decretarne progressivamente la caduta. L'idea di esporre ogni due anni le espressioni più significative dell'arte internazionale proposta ed affinata a Venezia in oltre un secolo di storia, ha ingenerato negli ultimi anni un processo imitativo che appare inarrestabile. Da Lione a Valencia, da Liverpool a Santa Fé, da Sidney a Istambul si sono venute moltiplicando le occasioni periodiche di messa a punto degli scenari delle arti visive, estese ormai a bacini culturali un tempo meno adusi a simili manifestazioni, come quello asiatico (con le Biennali di Kwanju o di Taipei e la Triennale di Fukuoka) od africano (Con Dak'Art). Se, in generale, il proliferare delle iniziative ne ha limitato l'impatto individuale, l'attenzione per il prototipo veneziano non è però venuta scemando, nonostante le perplessità suscitate dalle ultime edizioni.
Le carenze propositive riscontrate nelle rassegne ordinate dai più affermati curatori internazionali come Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Harald Szeeman non sono state superate nel 2003 con la direzione del "giovane" Francesco Bonami che, investendo su una pluralità sovrabbondante di collaborazioni critiche e sulla polverizzazione delle partecipazioni (più di 300 artisti), ha di fatto sconfessato il suo stesso assunto, sostituendo alla "Dittatura dello spettatore", cui era intitolata la mostra principale, l'arbitrio del curatore.
Nondimeno, con il supporto di un crescente risvolto mondano, l'evento ha mantenuto la sua centralità, consentendo ancora - come annota con una punta d'asprezza il corrispondente del Financial Times - alla città più anacronistica del mondo di ospitare il festival d'arte più importante della contemporaneità, con una sempre più folta presenza di padiglioni nazionali, nel cui ambito sembrano distinguersi tanto gli Stati Uniti, con Ed Ruscha e la Gran Bretagna con i body artisti Gilbert & Goerge quanto la Spagna con Antoni Muntadas e la Lituania con il Jonas Mekas, celebre cineasta underground.
La regia dell'edizione 2005, che prenderà il via il prossimo 12 giugno, è stata affidata dal Consiglio d'Amministrazione dell'Ente, presieduto da poco più d'un anno da un manager, Davide Croff, a lungo alla guida di BNL, alle spagnole Maria de Corral e Rosa Martinez. E' la prima direzione al femminile nella vicenda secolare della manifestazione, il che non ha mancato di attirare l'attenzione dei media, anche se la circostanza non rappresenta un inedito assoluto (Catherine David ha presieduto l'organizzazione di Documenta X a Kassel nel 1997; la stessa Martinez ha in precedenza curato le Biennali di Barcellona, Santa Fé ed Istambul). La diarchia fra le due organizzatrici è stata pragmaticamente risolta con una spartizione di competenze: a Maria de Corral è toccato il passato recente, sul quale farà il punto con "L'esperienza dell'arte", allestita nei Giiardini di Castello mentre Rosa Martinez tenterà di gettare uno sguardo sul futuro in "Sempre un po' più lontano".
In realtà, a giudicare dai nomi dei partecipanti alle due rassegne la differenza non appare così netta.
Maria de Corral ha scelto di presentare alcuni autori ormai storicizzati come Francis Bacon, Antoni Tapiés, Bruce Nauman e Barbara Kruger (cui è stato assegnato il Leone d'oro alla carriera per il suo lavoro incentrato sul ribaltamento concettuale della comunicazione pubblicitaria) in un contesto dominato da autori fra i quaranta e cinquant'anni (Thomas Ruff, Rachel Whiteread, Gabriel Orozco) completato da giovani come il portoghese Vasco Araujo (classe 1975) o la sudafricana Candice Breitz (1972). Il suo intento dichiarato consiste nel proporre "il labirintico percorso dell'arte … non come una storia compiuta ma come un processo definito in termini di relazione tra soggetti, forme, idee, spazi diversi, assomigliando esso più a un centro di sperimentazione che a un cumulo di certezze".
Rosa Martinez ha fatto ricorso anch'essa, per evocare il futuro, a figure storiche come lo scrittore Samuel Beckett, del quale il prossimo anno ricorrerà il centenario della nascita, e la novantatreenne Louise Bourgeois e ad artisti degli anni '50-'60 (Mona Hatoum, Olafur Eliasson, Bruna Esposito, Carlos Garaicoa), con una maggior caratterizzazione planetaria (documentata da presenze pakistane, colombiane, guatemalteche, filippine ecc.). A partire dal titolo ispirato alla disposizione avventurosa di Corto Maltese, il personaggio creato da Hugo Pratt, "Sempre un po' più lontano" si interroga attraverso una serie di installazioni create per gli spazi dell'Arsenale sulla possibilità di una nuova "dilatazione di confini, di un ampliamento di orizzonti che conduca oltre i modelli stabiliti"; un tentativo cui concorrono "il protagonista di avventure, il filosofo, lo scienziato, l'artista o l'organizzatore di esposizioni", cercando "costantemente di scoprire nuovi territori e di creare nuove possibilità di pensiero".
Solo la visione diretta delle opere potrà chiarire se le due prospettive si completino, com'è negli auspici, l'una con il recupero di scorci inaspettati degli ultimi decenni, l'altra saggiando le promesse di un cammino ancora da compiere, o se si tratterà di semplici esercitazioni in margine ad una situazione priva di contorni netti e d'un dinamismo autonomo. Ed è proprio la stasi riscontrabile nell'innovazione dei linguaggi artistici a provocare qualche timore in questo senso.