BIENNALE 2005: DOPO
di Sandro Ricaldone
"Ci sarebbe bisogno di critici, anziché di curators" - commenta a caldo Renato Barilli, critico
appunto e studioso d'arte, fra i più noti sulla scena internazionale. "I curatori hanno la tendenza
a riflettere le situazioni, senza sbilanciarsi, laddove i critici, in funzione delle proprie idee,
hanno talvolta la capacità di crearle".
E, a giudicare dalle due rassegne ordinate dalle direttrici della 51° edizione della Biennale d'arte
veneziana, non gli si può dar torto. Forse in qualche modo frenata dal ristretto intervallo intercorso
fra la nomina e l'apertura delle rassegne Maria de Corral ha allestito "L'esperienza dell'arte"
prefiggendosi di realizzare "non un discorso chiuso ma piuttosto un luogo aperto dove divenga
possibile scambiare idee, riflessioni, così come provocarle". In realtà pur se in un ordinamento
nitido, che contrasta con i percorsi disorganici proposti da Francesco Bonami nel 2003, la rassegna
risulta sostanzialmente suddivisa in due sezioni che non paiono dialogare fra loro: la prima, di
stampo museale, concentrata su alcuni maestri (Bacon, Guston, Tapiés, Nauman, Graham, relativamente
eccentrici rispetto alle tendenze neofigurative, informali e concettuali che rappresentano) e su
altri artisti più giovani ma già pienamente affermati (Holzer, Kruger, Kentridge, Balka); la seconda
affollata da giovani che (con l'eccezione di Tania Bruguera già distintasi nel 2002 a Documenta XI)
non sembrano apportare novità di linguaggio ma dedicarsi ad una rielaborazione non troppo penetrante
delle idee emerse nel passato recente.
Più decisa nel giocare la carta del cosmopolitismo che si va consolidando nella scena artistica
contemporanea, Rosa Martinez ha dato vita invece ad una rassegna decisamente più vivace anche se con
un tasso di eccellenza meno elevato. Neppure lei ha saputo fare del tutto qualche nume tutelare
(la novantaquattrenne Louise Bourgeois, presente anche con un'intrigante opera sonora, dove voci e
lingue diverse ricreano il mormorio d'un fiume; le Guerrilla Girls o Mariko Mori) ma ha ampliato
sensibilmente il ventaglio delle presenze asiatiche puntando non tanto sul bacino cinese quanto su
artisti provenienti dalla Turchia, dall'India o dal Pakistan, e creando così un miscuglio che ha
ancora una certa freschezza, nonostante il logoramento ormai evidente dei lavori realizzati con le
tecniche del video e della fotografia.
Ma se lungo il percorso si poteva gustare l'esuberanza cromatica dell'installazione di Pascale
Marthine Yaoundé (Camerun), la grazia leggera delle sovrapposizioni animate su motivi tradizionali
di Shahzia Sikander (Pakistan), le disincantate riflessioni sul ruolo dell'artista di Adrian Paci
(albanese residente a Milano), la scanzonata ironia degli sketch dei Blue Noses (i russi Viaceslav
Mitzin e Alexander Shaburov) tra accelerati incontri sessuali e fughe dinanzi a coccodrilli famelici,
non si può dire che l'aver raggiunto scenari remoti abbia davvero portato l'arte "Sempre un po' più
lontano" secondo l'intento dichiarato, sin dal titolo, dalla curatrice spagnola.
Probabilmente la migliore valutazione in proposito ci viene da Samuel Beckett - citato dalla stessa
Martinez nella introduzione alla mostra - quando si esprimeva a favore di un'arte "stanca di magri
exploits, di fare un po' meglio sempre la stessa cosa, di fare qualche passo avanti lungo una strada
desolata".
Forse oggi l'arte è davvero stanca, ma continua a cimentarsi con gli stessi obiettivi;
forse non è stanca abbastanza per scantonare in una direzione realmente nuova.