LUCIO FONTANA. LUCE E COLORE
di Sandro Ricaldone
Nero, rosa, oro. E ancora bianco, rosso, giallo: è su questo ventaglio di colori che si articola l’allestimento della mostra che Palazzo Ducale dedica, dal 22 ottobre 2008 al 13 aprile 2009, al genio di Lucio Fontana nel quarantennale della scomparsa.
Un impianto insolito, che si distacca dall’ordinamento per cicli tematici utilizzato in prevalenza nelle rassegne dedicate all’artista non per un mero capriccio dei curatori, Sergio Casoli ed Elena Geuna, ma per sottolineare come Fontana avesse intuito le potenzialità della pittura monocroma quasi un decennio avanti la sua nascita “ufficiale”, generalmente fissata dagli storici dell’arte nel 1955-56 con le prime esposizioni delle “propositions monochromes” di Yves Klein a Parigi.
Se questa affermazione, benché ricca d’interesse, non assume rilievo capitale (altre e più specifiche anticipazioni si erano registrate già a partire dalle ricerche di Malevich e di Rodtchenko, che risalgono al secondo decennio del ‘900) il criterio espositivo prescelto consente tuttavia di apprezzare in tutta la sua estensione, grazie alla compresenza nelle singole sale di opere appartenenti a differenti filoni compositivi, il carattere multiforme dell’invenzione del maestro.
Le opere raccolte nelle sale del-l’Appartamento del Doge, rimontano in parte preponderante al ventennio ’50-’60, al momento pienamente matura dell’artista - nato nel 1899 a Rosario di Santa Fe in Argentina, paese nel quale il padre, scultore, si era trasferito una decina d’anni prima – anche se non mancano alcuni lavori precedenti il secondo conflitto mondiale, quando già Fontana aveva conquistato un posto di rilievo nella cerchia degli astrattisti raccolti attorno alla Galleria milanese del Milione pur continuando a lavorare anche in ambito figurativo, specie nella ceramica coltivata ad Albissola presso la fabbrica Mazzotti e nelle manifatture di Sèvres.
E’ nel 1947, con il definitivo rientro dall’Argentina in Italia - dove aveva soggiornato fra il 1905 ed il 1921 con la famiglia ed era tornato dopo un intermezzo di sette anni per diplomarsi all’Accademia di Brera, risiedendovi sino al 1939 – Fontana inaugura la sua fase “spazialista”, partitamente documentata in rassegna, fondando l’omonimo Movimento, di cui redige il primo manifesto nel maggio di quell’anno insieme a Beniamino Joppolo, Giorgio Kaisserlian e Milena Milani.
“E’ impossibile – vi si afferma - che l'uomo dalla tela, dal bronzo, dal gesso, dalla plastilina non passi alla pura immagine aerea, universale, sospesa”. Emerge l’esi-genza di andare oltre la tela, d’inglobare nell’opera la materia e la luce, di occupare lo spazio realizzando ambienti ad impatto plurisensoriale. Nascono perciò nel 1949 i “concetti spaziali”, così definiti nella certezza che “la pittura sta tutta nell’idea” ed avviati con la serie (protratta sino al 1968, anno della scomparsa dell’autore) dei “Buchi” praticati nei diversi supporti (carta, tela, ceramica, metallo) in addensamenti prossimi all’immagine della costellazione od in più rarefatte scansioni ritmate. Viene allestito nello stesso anno alla Galleria Naviglio di Carlo Cardazzo uno dei prototipi dell’installazione,l’“Ambiente spaziale a luce nera”, seguito nel 1951 dal grande neon sospeso al soffitto dello scalone del Palazzo della Triennale, a Milano, e presentato al piano terra di Palazzo Ducale in una ricostruzione curata alcuni anni or sono dalla Fondazione Fontana. A queste prove determinanti fanno seguito i cicli delle “Pietre” (1951-56) ove frammenti di vetro formano un rilievo che dà luogo ad una sorta di contrappunto ai vuoti prodotti dalle perforzazioni nella tela, innescando nel contempo una dinamica di luci rifratte, e soprattutto le “Attese” (1958-68) i celebri “tagli” nei quali la dimensione immediata del segno si associa all’apertura di una dimensione ulteriore, di libertà sotto il profilo simbolico, spaziale dal punto di vista fisico e, come la denominazione suggerisce, virtualmente anche temporale.
Una silenziosa ma autentica rivoluzione, con cui si confronteranno artisti come Manzoni e Castellani, Klein e i tedeschi del Gruppo Zero, condotta con intima coerenza e semplicità, fuggendo ambizioni di protagonismo e pretese di primato. “Non ha senso – confidava in un’intervista rilasciata a Daniela Palazzoli pochi mesi prima della morte - dire: ‘L’ho fatto prima io’, anche perché l’arte è in continua evoluzione”.
Alla storica frattura rappresentata dai “buchi” e dai “tagli”, fanno seguito nuove sequenze, talune (i “Quanta”, 1959-60, composte da tele di diversa foggia, solcate da fenditure) incentrate su un’idea di permutabilità, altre (le “Nature”, svolte nello stesso arco di tempo e familiari ai frequentatori del Lungomare degli artisti ad Albissola Marina) di consistente impianto biomorfico, altre ancora (il ciclo “Fine di Dio”, 1963-64, su schema ovoidale) rappresentate in mostra da due esemplari – rosa il primo, bianco il secondo – di straordinaria bellezza, trame di fori di complessità barocca e forza primordiale. E quindi i “Teatrini” (1964-66), grandi pannelli attraversati da scie di buchi trattenute da eleganti cornici dai contorni mutevoli; le “Ellissi”, forme-oggetto scandite con cadenze geometriche elementari.
A concludere il percorso, esaurita la successione delle stanze-colore, un “Acquario” abitato dagli animali marini foggiati in ceramica ad Albissola a partire dalla seconda metà degli anni ’30; un ambiente vagheggiato dallo stesso autore, anche se di fatto non realizzato in vita, una sorta di omaggio postumo alla Liguria, che amava frequentare e dove molti ancora ne ricordano la generosità e l’intelligenza in cui – com’era solito dire – risiede “la sola vera libertà”.