PENSARE PITTURA
di Sandro Ricaldone
Proclamata a più riprese nell’ultimo cinquantennio, l’estinzione della pittura si è rivelata una profezia ingannevole. All’irruzione della performance, al diffondersi della pratica della installazione ed all’assalto delle nuove tecnologie elettroniche, questa disciplina ha saputo opporsi con mutazioni vitali, non di rado sorprendenti. Una disamina anche sommaria degli svolgimenti artistici che hanno caratterizzato la seconda metà secolo da poco concluso, porta irrefutabilmente a constatarne la persistenza se non addirittura il predominio, perpetuati nell’alternarsi di tendenze fra loro in contrasto, come l’Informale e l’arte Pop, l’Iperrealismo e la Pattern Painting.
La fondatezza di queste osservazioni non implica però che le vicende della pittura contemporanea abbiano tutte ottenuto nel tempo un’attenzione commisurata alla qualità degli esiti raggiunti. E’ accaduto infatti che il dilagare sulla scena internazionale dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale negli anni ’70 e l’imporsi nel decennio successivo della Transavanguardia, fautrice di una ripresa in chiave citazionista della tradizione primonovecentesca, abbiano schermato - in parte - la traiettoria più rigorosa che la pittura aveva compiuto nei due decenni precedenti, muovendo dalle ricerche di artisti come Albers e Ad Reinhardt, Fontana e Manzoni. “Alludere, esprimere, rappresentare, sono oggi problemi inesistenti – scriveva quest’ultimo nel 1960 - sia che si tratti di rappresentazione di un oggetto, di un fatto, di una idea, di un fenomeno dinamico o no: un quadro vale solo in quanto è, essere totale”. In una prospettiva analoga Udo Kultermann annotava, nel presentare, ancora nel 1960, la mostra Monochrome Malerei (Pittura monocroma) a Leverkusen: “L’auto-dinamismo del quadro aiuta a creare uno spazio che si muove verso lo spettatore e lo fa entrare in un gioco alterno che richiede una forma di attività sia da parte del quadro che dello spettatore”.
Proprio intenti di questa natura, diretti a realizzare opere autosufficienti, imperniate sugli elementi primari del dipingere, e ad istituire una relazione di pensiero con il fruitore, hanno dato sostanza al lavoro di quegli artisti che, fra Europa e Stati Uniti, alle soglie degli anni ’70 sono stati coinvolti nell’esperienza della “pittura analitica” (secondo un’espressione coniata da Klaus Honnef), altrimenti denominata, in rapporto ai raggruppamenti od agli eventi espositivi, “nuova pittura”, “pittura pittura”, “fundamental painting”. Si tratta di artisti americani, in qualche modo apparentati al minimalismo, come Ryman, Mangold, Martin, Cole, Hafif; di alcuni noti pittori inglesi (Robin Denny, Alan Green e Alan Charlton); di gruppi francesi quali il BMPT (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni) e Supports/Surfaces (Cane, Devade, Dolla, Viallat, fra gli altri); di nuclei di autori tedeschi (fra cui Gaul, Girke, Erben, Hofschen e Zeniuk) e italiani, sovente presenti in mostre congiunte, propiziate anche dagli avamposti creati in Germania da galleristi come Francesco Masnata e Roberto Peccolo. Su questo reticolo di ricerche, volte a “trovare in se stesse i termini di riferimento e di verifica” ed accompagnate perciò – specie sui versanti francese e italiano – da un’intensa produzione teorica, si concentra oggi la mostra “Pensare pittura”, curata per il Museo di Villa Croce da Franco Sborgi e Sandra Solimano con il proposito di contribuire ad una rilettura del ramificato manifestarsi dell’idea di “analiticità” in pittura, avviata da qualche tempo grazie all’attivismo della Fondazione Zappettini di Chiavari ed agli approfondimenti compiuti in sede storica da Marco Meneguzzo, Giorgio Bonomi, Claudio Cerritelli e Alberto Rigoni.
Il percorso della mostra si apre con un prologo dedicato ai “precursori” fra i quali - accanto ad Aricò, Dorazio, Calderara, Nigro, Noland, Reinhardt - rivestono una posizione di spicco Lucio Fontana, del quale è esposto uno dei “tagli”, e Josef Albers, rappresentato da uno studio del ’67, della serie “Omaggio al quadrato”. Ai “Protagonisti italiani” è dedicata la sezione più corposa e sfaccettata, dove i densi e graduati trapassi cromatici di Claudio Olivieri e le palpitanti superfici colorate di Claudio Verna si confrontano con le ascetiche strutture bianco su bianco di Gianfranco Zappettini. Dove i segni verticali, azzurri e violetti di Giorgio Griffa e le impercettibili sfumature ritmiche di Riccardo Guarneri trovano un severo contraltare nella saldezza delle superfici trattate con il cemento da Enzo Cacciola. Dove, ancora, la libera articolazione spaziale di segmentisegno tracciata da Pino Pinelli e l’andamento ondulato della struttura in plexiglas di Marco Gastini sfidano il nitido rigore del dittico di Carmengloria Morales e la compatta trama di bande tesa da Paolo Cotani.
Al piano superiore del museo, una selezione di artisti internazionali (tra i quali è incluso, per via della protratta residenza newyorkese, anche il nostro Lucio Pozzi), amplia la portata dell’indagine, evidenziando l’attenzione dei francesi per le problematiche del supporto, la puntigliosa attenzione dei tedeschi per i gradienti percettivi, una dissimulata propensione gestuale negli olandesi, l’approccio inespressivo di americani e dei britannici.
Ne risulta un intreccio di grande attrattiva, in certo modo inattuale ma ricco di suggestioni, da investigare a fondo in attesa che il tempo chiarisca se si è trattato di uno dei non rari “sentieri interrotti” dell’arte contemporanea o invece soltanto del momentaneo inabissarsi di una corrente carsica che si appresta a riemergere vigorosa.