SHOZO SHIMAMOTO
SAMURAI, ACROBATA DELLO SGUARDO
di Sandro Ricaldone
“Finiamola con la congerie di simulacri che ingombrano altari, palazzi, esposizioni e negozi di rigattieri! Sono fantasmi che hanno caricato di falsi significati materiali come i pigmenti, la tela, i metalli, la terra o il marmo”. Con questa vibrante sollecitazione Jirö Yoshihara apriva, nel 1956, il manifesto del Gruppo Gutai (termine che in giapponese significa “concreto”), formazione che doveva incidere in profondità sul panorama artistico della nazione asiatica, introducendovi inedite forme d’azione e d’installazione ambientale, e che quasi immediatamente ha trovato spazio anche sulla scena internazionale, grazie soprattutto al sostegno di un eminente critico europeo, Michel Tapié.
Nella pattuglia di giovani raccolti attorno a Yoshihara, Shozo Shimamoto ha occupato, sin dalla fondazione del gruppo nel 1954, un ruolo di primo piano. Fedele al principio secondo cui “l’arte Gutai non trasforma, non fa un uso distorto della materia: la fa vivere”, Shimamoto realizza all’epoca i suoi lavori con procedimenti alternativi a quelli tradizionali: frantumando sulla tela bottiglie piene di colore o “sparando” la pittura con un piccolo cannone attivato dal gas di acetilene.
A ricostruire il percorso dell’artista giapponese, nel suo coerente svolgimento, interviene la mostra che verrà inaugurata domani (12 novembre 2008) al Museo di Villa Croce, preceduta da una performance in piazza Matteotti durante la quale l’ottantenne Shimamoto realizzerà una tela “bombardandola” dall’alto, sospeso al gancio di una gru, mentre Philip Corner, compositore Fluxus, proporrà con la danzatrice Phoebe Neville una serie di variazioni musicali e coreografiche.
Ad aprire la rassegna - curata da Achille Bonito Oliva ed organizzata da Antonio Borghese in collaborazione con la Fondazione Morra di Napoli e l'Associazione Shozo Shimamoto – è un significativo gruppo di opere degli anni ’50-’60, dove l’energia della materia-colore implode in grandi agglomerati casuali, evolvendo dal veloce condensarsi iniziale alla sfumata alterazione dei timbri cromatici.
“Materia, caso e ascolto” – annota in catalogo Lorenzo Mango – “sono elementi che legano Shimamoto alla cultura zen. Proprio come accade in molti procedimenti dello zen, l’artista compie un gesto e poi lascia che le cose scorrano da sole, disponendosi ad accettarle come sono”.
Un atteggiamento, questo, che si è mantenuto costante nel tempo, seppure con uno slittamento progressivo dell’attenzione dall’esito (il quadro) al processo attraverso cui viene realizzato.
“Televisione e giornali – ricorda l’artista - venivano sovente a vedermi, ma non per pubblicare le opere create, bensì lo scenario di produzione. All’inizio mi capitava di arrabbiarmi, ma alla lunga ho cominciato a pensare diversamente e a formulare qualche idea per cambiare l’ambientazione”.
E infatti negli anni più recenti, con le azioni spettacolari proposte in varie località del mondo, Italia inclusa, Shozo Shimamoto è venuto elaborando articolazioni sempre più complesse del “bottle crash”, attuato da ultimo con il supporto di elevatori meccanici e addirittura d’un elicottero. Alla semplice tela sostituisce oggetti rivestiti di spessore simbolico (la Venere di Milo, una statua del Buddha, un pianoforte, tutti presenti in mostra); contempla l’intervento di altri performers; attiva una componente sonora, costruendo attorno all’erompere del colore un’espe-rienza che coinvolge i sensi nel loro insieme.
Procede insomma oltre l’ambito della pittura per configurare una sorta di rituale di affrancamento della materia. Materia che, “una volta rivelata in quanto tale”, – secondo l’intuizione di Yoshihara – “inizia a parlare, e a gridare, persino”.