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40 JAHRE VIDEOKUNST
di Sandro Ricaldone

 

Sono passati più di quarant’anni da quando Nam June Paik, artista coreano emigrato in Europa e qui divenuto membro di Fluxus, con una camera Portapak, appena lanciata sul mercato dalla Sony, riprese – in “Café Gogo” - le vie di Manhattan dal finestrino di un taxi, segnando a la nascita della video-arte. E, benché tuttora questa branca della ricerca artistica rivesta la parvenza della novità già cominciano a porsi, al suo riguardo, problemi di conservazione e di restauro.
I supporti magnetici sui quali venivano registrate le riprese - i nastri VHS, ormai soppiantati dai DVD – sono andati incontro, infatti, ad un degrado così rapido da richiedere solleciti interventi di restauro. In Germania questo problema è stato affrontato dalla Fondazione Federale della Cultura, che ha avviato negli anni scorsi un progetto (40jarhevideokunst.de) di raccolta e ripristino dei principali lavori di video-arte realizzati nel paese lungo tutto l’arco d’esistenza di questa disciplina.
Ne è emersa una straordinaria selezione di cinquantanove opere che – dopo essere stata presentata da alcuni musei tedeschi – inizia a circolare nel mondo. Grazie alla partnership con il Goethe Institut Genua, il Museo di Villa Croce ha l’opportunità di ospitare – da stasera al 19 ottobre prossimo - l’unica tappa italiana di questo tour, attraverso dodici postazioni (tre videoproiezioni in loop e nove monitors) che consentiranno al pubblico di scegliere le opere da visionare, con la chance di replicare l’accesso utilizzando il solo biglietto originario.
Le opere in visione, presentate da Alessandra Pioselli, permettono di seguire l’evoluzione del mezzo elettronico a partire da anticipazioni come “Sun in your head” di Wolf Vostell (1963), un collage realizzato filmando frammenti (con i relativi disturbi) di trasmissioni televisive, montati poi in sequenze frenetiche, e dal pionieristico documentario sulla “Land Art” girato nel 1969 per la televisione da Gerry Schum. Allo stesso periodo appartiene lo stupefacente “Black Gate Cologne” di Otto Piene e Aldo Tambellini, noto per essere la prima produzione realizzata da artisti in collaborazione con la televisione, unendo happening, cinema sperimentale e sculture di luce alle più avanzate tecnologie di studio.
Di assoluto rilievo il contributo recato negli anni successivi da artiste come Katherina Sieverding, che in “Life/Death” (1969-2004), rivestita da una cappa rossa, contempla la propria immagine allo specchio, e Frederike Pezold, che in “Die neue leibhaftige Zeichen-sprache”, (“Il nuovo linguaggio incarnato nel segno”, 1973/77) trasforma appunto in segni astratti i dettagli del proprio corpo. Ancora, Rebecca Horn in “Berlin - Übungen in neun Stüken” (“Berlino – Esercizi in nove parti”, 1974/75), registra una complessa performance in cui si serve del proprio corpo e di oggetti incongrui per trovare un nuovo rapporto con lo spazio in cui si muove.
Né mancano poi lavori che propongono tematiche politiche e/o mettono a fuoco le contraddizione dei media. Ne sono esempi “Das Schleyer - Band I/II” (1977/78) di Klaus von Bruch, incentrato su uno dei più efferati atti terroristici della Rote Armée Fraktion, così come il recente “The Nuclear Football” di Andree Korpys e Markus Löffler che affronta il tema dell’immagine del potere attraverso le riprese di una visita di George Bush a Berlino.
Ma tutto l’insieme è ricco d’interesse e di sorprese, in un panorama che unisce star internazionali come Paik - qui rappresentato da “Good Morning Mr. Orwell” (1984), il primo video artwork andato in onda via satellite - o il duo Ulay-Marina Abramovic ad artisti affermatisi in anni più recenti, come Christian Jankowski o Harun Farocki, cui si deve l’inquietante “Gefängnisbilder” (2000), costellato di immagini di folle violenza carceraria.




 

Lettera sulle arti a Genova - a cura di Sandro Ricaldone      Home      Top      Contact